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Ci sono nomi che non si consumano con il tempo, ma restano sospesi nella memoria come fotografie che nessuno riesce a sbiadire. Diego Armando Maradona è uno di questi. Ogni volta che qualcuno lo racconta, riaffiora il mito fatto di giocate impossibili, estro puro e un'aura fuori dal comune che ancora oggi attraversa il calcio. A riportare alla luce nuovi frammenti di quel passato è Stefano Tacconi, storico portiere della Juventus e della Nazionale, che in una recente intervista a La Repubblica ha ripercorso i suoi duelli con il campione argentino, soffermandosi tanto sulle magie viste dal campo quanto sul lato più umano e fragile di Diego.
Tacconi rivive uno degli episodi simbolo della grandezza maradoniana: quel 3 novembre 1985, quando una punizione divenne leggenda e sembrò sfidare ogni legge fisica possibile. Lui era tra i pali, spettatore privilegiato di un gesto destinato a fare la storia. “Subire un gol così, racconta, è stato quasi un privilegio. Se ne parla ancora dopo quarant’anni. È come se io e Diego fossimo diventati immortali insieme in quel momento. Quel giorno inventò qualcosa che nessuno aveva mai visto prima”. Tra i due, ricorda Tacconi, non mancava mai il confronto diretto, spesso pungente, sempre sincero. “Mi stimava perché avevo il coraggio di dirgli tutto in faccia, anche quando lo criticavo. Mi diceva che avevo carattere. Non so se fossimo davvero amici, ma tra noi c’era un rispetto vero”.
E le provocazioni non restavano solo parole. Durante la finale di Supercoppa Italiana del 1990, con il Napoli avanti in modo nettissimo, Tacconi arrivò persino ad avvertirlo dal campo: “Gli urlai di smetterla, che stava infierendo troppo e rischiava di farsi male continuando a giocare a quei livelli. Lui mi guardò e scoppiò a ridere. Io lo minacciavo, lui sorrideva come se nulla potesse scalfirlo”. Ma ai ricordi leggeri si affianca inevitabilmente la nota più amara. Tacconi parla anche della fine di Maradona, dei suoi ultimi giorni e della solitudine che, secondo l’ex portiere, ha accompagnato il campione fuori dai riflettori. “Se n’è andato da solo, senza l’amore che forse avrebbe meritato. È vero, in parte ha contribuito anche lui alle proprie difficoltà, ma nessuno dovrebbe affrontare l’ultimo tratto della vita in quel modo”.
Il confronto, a questo punto, diventa personale: “Quando io sono stato male, ho sentito tutti vicino. Famiglia, amici, affetti. Diego invece non ha avuto quella stessa presenza intorno, e questo pesa”. Restano così due immagini che convivono nel racconto di Tacconi: il Maradona invincibile del campo, capace di creare bellezza con un calcio al pallone, e l’uomo vulnerabile della vita privata, schiacciato da una solitudine che nemmeno la fama poteva colmare. Un dualismo che rende la sua storia ancora più potente e drammatica, consegnandolo definitivamente al mito: non solo campione irripetibile, ma simbolo eterno di un calcio che non esiste più.
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