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Il sorriso è il modo di esprimersi di Firmino, il campione cresciuto fra le baracche della periferia di Maceiò

LIVERPOOL, ENGLAND - FEBRUARY 17: Roberto Firmino of Liverpool laughs during a training session at Melwood Training Ground on February 17, 2020 in Liverpool, United Kingdom. (Photo by Charlotte Tattersall/Getty Images)

Firmino ha vinto tutto con il Liverpool ed è titolare del Brasile, ma sua mamma Mariana temeva che la criminalità della città brasiliana glielo portasse via

Redazione DDD

Maceiò, come racconta ilcalcioinglese.com, è una città dalla doppia faccia. Su un lato uno dei mari più belli del Sudamerica, le spiagge, i resort, aree esclusive dedicate ai turisti. Dall’altro cruda violenza e criminalità. Tra le baracche e i casolari che caratterizzano l’area periferica a sud della città, a poche centinaia di metri dall’Estadio Rei Pele è nato e cresciuto Roberto Firmino. L’attaccante del Liverpool, campione d’Europa e Campione del Mondo in carica, prima di diventare il calciatore che noi tutti conosciamo, ha dovuto superare un’infanzia ben lontana dall’agiatezza e i comfort su cui ora può contare. La fortuna di firmino è sempre stata la sua famiglia. La madre Mariana temeva che il figlio che con tanta amore e tanti sacrifici stava crescendo, avrebbe potuto seguire strade poco raccomandate e diventare uno dei tanti ragazzi di strada che popolano quell’area del Brasile.

Per sua fortuna quel ragazzino ha avuto le idee chiare sin da subito: l’unica cosa che sapeva fare era giocare a pallone. E quando non poteva fare numeri con la palla, ci provava con un frutto, un oggetto o qualsiasi altra cosa che gli assomigliasse. Firmino non è mai stato un ragazzo di tante parole. Ha sempre anteposto il fare al dire. Si divertiva, rideva, scherzava, andava a scuola, studiava ma, anche quando avrebbe dovuto, parlava poco. Lo conferma Ari Santiago, uno dei più cari amici d’infanzia di Firmino, nonché suo primo vero allenatore, in un’intervista alla BBC: “Io gestivo la scuola calcio del paese e collaboravo con i vari istituti scolastici ma non avrei mai pensato che uno dei “miei” ragazzi potesse arrivare a giocare con il Brasile. Roberto, però, era diverso. Doveva sempre avere qualcosa tra i piedi. Era malato di calcio e non era di molte parole, anche se aveva imparato a sostituirle con il sorriso. Ricordo bene un episodio, che spiega la potenza di quel sorriso. Una volta ai quarti di finale della coppa locale, la sua squadra di calcio fu sorteggiata contro quella della nostra scuola. La sera prima della partita, mentre tutti lo stuzzicavano, aveva detto: “portate il pallottoliere domani, vi servirà”. Ed ebbe ragione. Lui segnò e vinsero 8-0. Il giorno dopo arrivò a scuola per ultimo. Sorrise, mentre tutti lo guardavano, e non disse una parola. Poco dopo venne in cattedra da me per consegnarmi un foglio, mi sorrise e se ne andò. Il sorriso è semplicemente il suo modo di esprimersi. Lo faceva per persuadere la gente ma anche come mezzo di comunicazione, data la grande timidezza e il suo modo di fare riservato. Difficile sia lui a cominciare un discorso, ma altrettanto difficile vederlo arrabbiato”.

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