derbyderbyderby calcio italiano serie a Il calcio in trasferta… senza tifosi: Milan-Como a Perth e la favola del “sacrificio necessario”

Il calcio che chiede silenzio ai tifosi

Il calcio in trasferta… senza tifosi: Milan-Como a Perth e la favola del “sacrificio necessario”

Il calcio in trasferta… senza tifosi: Milan-Como a Perth e la favola del “sacrificio necessario” - immagine 1
Un calcio che chiede sacrifici continui ai tifosi rischia di perdere ciò che lo rende vivo: la passione reale. Dietro la retorica della crescita globale si nasconde una progressiva esclusione del pubblico locale
Stefano Sorce
Stefano Sorce

Nel lessico del calcio moderno c’è una parola che torna ciclicamente ogni volta che si chiede qualcosa ai tifosi senza offrire nulla in cambio: sacrificio. È una parola comoda, rassicurante, quasi nobile. Peccato che venga usata sempre a senso unico. Perché il sacrificio, ancora una volta, non lo fanno i dirigenti, non lo fanno le istituzioni, non lo fanno le televisioni. Lo fa chi sta fuori da ogni stanza dei bottoni: il tifoso, chiamato ad accettare anche l’idea di vedere Milan-Como spostata dall’Italia fino a Perth.

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Il calcio vola a Perth, i tifosi restano a casa: il caso Milan-Como

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L’ipotesi di portare Milan-Como a Perth viene presentata come un inevitabile passo verso il futuro, come un gesto necessario per “internazionalizzare il prodotto Serie A”. Ma dietro questa formula elegante si nasconde una realtà molto più semplice e brutale: una partita tolta a chi vive il calcio tutto l’anno per essere venduta a chi lo consuma una sera ogni tanto.

Si parla di comprensione, di tifosi che “capiranno”. Ma quando è stata posta loro una domanda? Quando è stato aperto un confronto reale? Mai. Perché nel calcio di oggi il tifoso è un target commerciale, non un soggetto con diritto di parola. È utile nei comunicati, nelle campagne marketing, nei video emozionali. Poi, al momento delle scelte vere, viene messo in modalità silenziosa.

Il paragone con gli Stati Uniti è il classico esempio di narrazione forzata. Negli USA lo sport nasce come spettacolo itinerante, come franchigia, come evento pensato per muoversi. In Italia no. Qui il calcio è radicamento, è appartenenza geografica, è storia tramandata. Mettere sullo stesso piano due modelli così diversi significa ignorare volutamente la cultura sportiva di un Paese.

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Pagare, guardare, tacere: il nuovo ruolo del tifoso

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C’è poi un aspetto ancora più grave, di cui si parla troppo poco: il precedente. Perché se oggi è Milan-Como a Perth, domani cosa impedisce di portare un derby, una partita decisiva per la salvezza, una sfida storica all’estero? Una volta aperta la porta, richiuderla diventa impossibile. Il calcio non funziona a compartimenti stagni: ogni eccezione diventa rapidamente una regola.

Nel frattempo si continua a predicare stadi pieni, passione, atmosfera. Ma come si concilia tutto questo con l’idea di svuotare i territori? Come si può chiedere identità a un pubblico che viene sistematicamente espropriato dei suoi momenti più importanti? La verità è che il tifoso ideale, per chi governa il calcio, è quello che paga e non protesta. Presente nei numeri, assente nelle decisioni. E mentre si parla di crescita globale, si dimentica la base. I giovani, le famiglie, le province. Si dimentica che il calcio italiano non ha bisogno di andare a Perth per essere grande, ma di ritrovare credibilità, rispetto e coerenza. Perché senza tifosi allo stadio, senza rivalità vissute dal vivo, senza passione reale, il prodotto perde valore. Anche economico, alla lunga.

Alla fine resta una sensazione amara: quella di essere stati invitati a capire qualcosa che in realtà non è pensata per noi. Milan-Como a Perth non è un atto di modernità. È una dichiarazione. La dichiarazione che il calcio non appartiene più a chi lo ama, ma a chi lo vende. E se questo è il futuro, forse il problema non è dove si gioca una partita. Il problema è capire chi ha ancora il diritto di chiamarsi tifoso.