calcio italiano

Vittorio Pozzo, due Mondiali vinti per l’Italia senza guadagnare nemmeno una lira

Redazione DDD

Vittorio Pozzo non è mai stato ideologicamente vicino al fascismo

di Luigi Furini -

L’8 maggio 1898 a Genova si gioca il primo campionato di calcio. Ci sono iscritte tre squadre: l’Internazionale Torino, il Torinese e il Genoa. Semifinali al mattino, finale al pomeriggio. Vincono i gialloblù ai supplementari. L’incasso è di 197 lire. Sugli spalti ci sono 212 tifosi. Uno di questi, partito all’alba da Torino, è Vittorio Pozzo, che poi diventerà il Ct della Nazionale. E’ solo un ragazzino, ha 12 anni, ma è pazzo per il football. Diventa grande, va a studiare in un collegio svizzero e lo prendono (ma come riserva) nel Grasshoppers. Finisce gli studi, lavora per la Pirelli che lo manda in missione in Inghilterra. La domenica prende il treno dei tifosi per vedersi Manchester City-Arsenal.  Siamo nel 1908. Torna e decide che il calcio sarà la sua vita. Nel 1912 gli affidano la Nazionale per le Olimpiadi di Stoccolma. Perde, torna, si dimette e riprende il lavoro alla Pirelli. Però, in Italia, non c’è nessuno preparato come lui. Parla e scrive in inglese, francese e tedesco. Ha rapporti con tutti i club europei.  Ma scoppia la guerra e Pozzo diventa capitano degli alpini. Al ritorno gli riaffidano la Nazionale. Nel 1930 si gioca in Ungheria una specie di campionato europeo. Il treno parte da Milano, ma Pozzo fa scendere la comitiva a Gorizia. Porta gli azzurri a Redipuglia per spiegare quanti ragazzi sono morti per la patria. “E voi dovete onorare l’Italia sul campo”. La nazionale vince a Budapest per 5-0. Il premio è una coppa in cristallo di Boemia che cade subito a terra e va in frantumi. Impossibile aggiustarla. Fa niente. Pozzo si mette in tasca un frammento di vetro che gli servirà come portafortuna.

Predilige i giocatori piemontesi, lombardi e veneti, soprattutto quelli di Juve, Torino, Inter e Milan, ma fa un’eccezione per Attilio Ferraris, romano “de Roma”. Alla vigilia dei Mondiali del 1934 Ferraris ha quasi smesso di giocare. Passa le giornate al biliardo, beve, fuma ed è circondato da belle donne. Pozzo lo convince a smettere, lo porta in ritiro, lo rimette in campo e Ferraris lo ripaga con un Mondiale eccellente. Finito il Mondiale, Pozzo lascia la Nazionale per dedicarsi al giornalismo, sua altra grande passione. Scrive (di calcio) per La Stampa, ma lo richiamano: ci sono i Mondiali in Germania nel 1938. E’ fissato con il “metodo” (grandi discussioni rispetto a chi preferisce lo schieramento a “sistema”). Porta la squadra in ritiro a Cuneo, città di alpini, lontana (a suo parere) dalle tentazioni. Dopo la guerra, lo costringono a lasciare gli azzurri (lo accusano, falsamente, di essere stato anche vicino al fascismo). Se ne va con 65 vittorie su 97 partite. La Federcalcio, che non lo ha mai pagato (né lui pretendeva compensi) gli regala un appartamento a Torino.

Nel 1948 si avvicina al suo primo grande amore: il Torino. Ma il sogno dura poco. E’ lui a dover riconoscere, il 4 maggio 1949, i corpi straziati dei giocatori dopo la tragedia di Superga. Pozzo muore nel 1968 a 82 anni. La Lega calcio, la domenica dopo, si dimentica di far rispettare il minuto di raccoglimento sui campi. In Italia non c’è un grande stadio e lui dedicato.