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Rangnick senza rancore: no alle rivoluzioni al buio, il modello Atalanta non è replicabile nella metropoli

BERLIN, GERMANY - MAY 25: Ralf Rangnick, head coach of RB Leipzig, is seen during an interview prior the DFB Cup final between RB Leipzig and Bayern Muenchen at Olympiastadion on May 25, 2019 in Berlin, Germany. (Photo by Alex Grimm/Bongarts/Getty Images)

Il Milan e il dovere della continuità: numeri, riflessioni e considerazioni

Redazione DDD

di Max Bambara -

Nella stagione 2017-18, il Milan di Rino Gattuso fece 39 punti nel girone di ritorno. Non furono sufficienti per raggiungere l’ambito traguardo della qualificazione alla Champions League perché il pessimo girone d’andata aveva reso la situazione compromessa. La rivoluzione estiva sulla rosa, effettuata da Mirabelli, aveva richiesto tempi di implementazione medio-lunghi ed un cambio di allenatore a novembre. Quel Milan di fine campionato 2018, dopo un’estate particolare in cui fu rivoluzionato nei ruoli chiave (venne ceduto Bonucci e ad ottobre andarono fuori due perni del centrocampo come Biglia e Bonaventura per infortuni seri), non riuscì a ripetersi nel girone di andata dell’anno successivo, collezionando soltanto 29 punti in 19 partite.

Simon Kjaer a San Siro lo scorso 1' agosto

Simon Kjaer a San Siro lo scorso 1' agosto

Fece bene Rino anche nel girone di ritorno della stagione 2018-19, quando Gattuso riuscì a dare alla sua squadra una dimensione ed un’anima (inserendo alla grande i neoarrivati Paqueta e Piatek), arrivando a fare 37 punti in 19 partite. Una media praticamente da Champions League, ma che non fu sufficiente a raggiungere l’obiettivo a causa della zavorra che la squadra si portava dietro dal girone d’andata. Altro giro, altra storia: anche in quell’occasione il Milan non riuscì a rimanere fedele a sé stesso ed in estate venne iniziata l’ennesima rivoluzione, con Marco Giampaolo in panchina ed un trapianto metodologico mai riuscito. Nel girone di ritorno però, Stefano Pioli (nel frattempo subentrato ad ottobre all’ex allenatore della Sampdoria) fu talmente bravo a trovare la quadra da riuscire a fare 41 punti in 19 partite.

In questi numeri, nella loro ripetizione crescente, si cela il perché della rinuncia a Ralf Rangnick e della conferma di Pioli sulla panchina rossonera. Il Milan, dopo 3 anni di occasioni perdute, ha scelto di puntare sulla continuità e sulla conferma dell’impianto base di questa squadra che andrà integrato con alternative di valore, ma non stravolto. Dopo 3 gironi di ritorno consecutivi in cui il Milan ha avuto una media da Champions League (nel 2017-18, nel 2018-19 e nel 2019-20) con 37, 39 e addirittura 41 punti conquistati, la società rossonera ha dovuto iniziare a porsi degli interrogativi e a fare delle riflessioni molto attente. Ne ha dedotto evidentemente che le rivoluzioni e i cambiamenti repentini su una squadra che funziona non sono mai cosa buona e giusta in un campionato livellato e difficile come la Serie A.

Con l’arrivo di Rangnick la rivoluzione ed una serie cambiamenti sarebbero stati invece necessari; ciò è confermato dalle parole del manager tedesco nella sua intervista alla Gazzetta dello Sport, in cui il tecnico ha spiegato le sue differenze di opinioni con l’attuale dirigenza e la sua visione del calcio, portata al non puntare su giocatori anziani, bensì su giocatori giovani che sono più disponibili ad imparare. Un passaggio è abbastanza rivelatore, quand’anche non chiarificatore: il Milan deve guardare all’Atalanta. Legittima opinione per carità, ma assolutamente non in linea con la storia del club rossonero e poco rispettosa della difficoltà di fare calcio in Italia. Perché puntare sui giocatori giovani in provincia (dove non ci sono pressioni e dove il risultato non condiziona troppo gli umori) è una cosa possibile; farlo in una metropoli che ha avuto la fortuna di vedere alzare al cielo sette Champions League lo è molto di meno. Dall’intervista rilasciata da Rangnick alla Gazzetta, emerge una visione del calcio molto pulita ed una personalità forte, estremamente professionale e rispettosa dei ruoli; emerge altresì, abbastanza nitidamente, anche una totale non conoscenza di determinate dinamiche e di uno status storico relativo alla Serie A italiana. Probabilmente è per questo motivo che il fondo Elliott ha rinunciato a prendere il manager tedesco: se alla scarsa conoscenza della Serie A, si fosse unita anche la pretesa di non tenere in organico i due giocatori che più degli altri hanno contribuito a dare sicurezze al Milan (Kjaer e Ibra), si sarebbe iniziata l’ennesima rivoluzione al buio. E questo il Milan, oggi, non può permetterselo.

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