NEMMENO LUI ERA UN SANTO, MA QUANTO AMORE PER IL CALCIO...

Boniperti per sempre

TURIN, ITALY: juventus president Giampiero Boniperti signing autographs on 1980's in Turin, Italy. (Photo by Juventus FC - Archive/Juventus FC via Getty Images)

La memoria che decora il dirigente non può lasciare indietro il centravanti che fu, capace di laurearsi capocannoniere davanti a Valentino Mazzola, il capitano del Grande Torino.

Redazione DDD

analisi Facebook di Roberto Beccantini -

Difficile, di fronte a questa notizia, restare neutrali. E forse sarebbe anche sbagliato. Giampiero Boniperti se n’è andato sul filo dei 93 anni, li avrebbe compiuti il 4 luglio. E’ stato giocatore e presidente della Juventus, è stato la Juventus. A suo modo, nel suo periodo, con quel carattere ispido, con quello slogan «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta», che ne diventò il manifesto e la cella. L’aveva rubacchiato a Vince Lombardi, guru del football americano, ammesso che fosse davvero suo. Arrivò alla Juventus nel 1946, lo buttarono subito in campo e subito segnò sette gol. Carlin Bergoglio, su «Tuttosport», scrisse: «E’ nato un settimino».

 (Photo by Juventus FC - Archive/Juventus FC via Getty Images)

(Photo by Juventus FC - Archive/Juventus FC via Getty Images)

Abile, elettrico, tecnico, rapace. Simbolo della Juventus, dunque degli Agnelli, dunque del potere. Memorabili i duelli e i duetti con Benito Lorenzi, detto veleno, centravanti dell’Inter. «Giampiero, vuoi arbitrare tu?». Quante volte. E poi, alla prima fuori campo, ciao Marisa, ciao Veleno. Marisa, perché (versione di Lorenzi) era così biondo, riccioluto ed elegante, o perché (versione bonipertiana), c’era di mezzo un Miss Piemonte - Marisa, appunto - con la quale era entrato in campo a Novara, per un’amichevole («Una vita a testa alta», Enrica Speroni). Poi, con l’arrivo di John Charles e Omar Sivori, arretrò a metà campo, persino all’ala. Mollò il nove, si rifugiò (anche) nel sette, ma che trio, quel trio. Non che amasse Omar, ma ne rispettava il genio ribelle. Vinse e rivinse, arrivò a timbrare una doppietta a Wembley, addirittura, in un’Inghilterra-Resto del Mondo che resta fra i ricordi più cari. Disputò due Mondiali (nel 1950 in Brasile, nel 1954 in Sviezzera), chiuse con 8 gol 38 presenze: l’ultima, a Napoli contro l’Austria, coincise con la prima di Giovanni Trapattoni. D’improvviso, il 10 giugno 1961, dopo Juventus-Inter 9-1, la madre di tutte le polemiche, prese le scarpe e le diede al massaggiatore: «Non mi servono più». Figlio del suo tempo, delle sue zolle contadine, con gli scrosci e gli arcobaleni che solcano le carriere dei Forti. Mezzala, al culmine della carriera, con due mezzali come Giovanni e Umberto Agnelli, privilegio mai occultato. Sapeva che era facile vincere così, con il salvadanaio di «quei due», ci sarebbero riusciti in molti, lui però ci mise sapienza e conoscenza, merce rara già allora. L’unico ruolo dal quale si tenne sempre alla larga fu l’allenatore. Forse perché lo era sempre stato, e continuava a praticarlo in sede, con la malizia del confessore.

Non è stato perfetto, non è stato un santo. La sua Juventus fu coinvolta, e poi assolta, nell’ambito del toto-nero per un pari di Bologna, ma alzi la mano chi. I centimetri con la Roma di Dino Viola, l’amore per un calcio tradizionale, di terra, che trovò in Giovanni Trapattoni l’interprete più efficace. Ha vinto, rivinto e stravinto in Italia, meno in Europa: un po’ per le frontiere chiuse quando poteva contare su uno squadrone, un po’ per un approccio tattico che oltre confine pagava meno (ah, la fatal Atene del 1983). Lasciò la Juventus nel febbraio del 1990, dopo esserne diventato presidente nel 1971. E, con Italo Allodi prima e Pietro Giuliano poi, averla letteralmente cambiata. Aveva fiutato l’aria. La Juventus degli anni Settanta: non so se la più bella, di sicuro puro cemento armato (e amato). Il calcio stava cambiando. Venne precettato d’urgenza, già nel 1991, per riparare i danni di Luca Montezemolo. Si portò dietro il Trap. Non funzionò. Troppo forte, il Milan che Berlusconi aveva affidato ad Arrigo Sacchi e poi a Fabio Capello. Durò tre stagioni, dovette accontentarsi di una Coppa Uefa, mai tornare sul luogo del diletto. I bilanci non quadravano, Gianluca Vialli era costato un occhio della testa, Umberto Agnelli si buttò sulla Triade: Roberto Bettega, Luciano Moggi, Antonio Giraudo. Figuriamoci. Con Giraudo e Moggi non legò mai, né loro legarono con lui, salvo cercare di recuperarlo - sul piano dell’immagine, almeno - poco prima che scoppiasse Calciopoli. Detestava le interviste, aveva paura di essere banale, soffriva i derby, scappava via all’intervallo, allevò generazioni di cronisti al culto dei puntini di sospensione, dei saluti improvvisi e diversivi a mamma e papà, ha segnato un’epoca, l’epoca del calcio all’italiana, della tradizione, come i classici che si studiano a scuola. Trattava gli ingaggi in un giorno, a Villar Perosa, uno per uno, dalla A di Giancarlo Alessandrelli alla Z di Dino Zoff, e l’estate in cui il Toro vinse lo scudetto, in rimonta, ricevette i giocatori con dietro, sul muro, la foto del gol di Renatino Curi a Perugia, l’episodio che era costato il titolo.

Altri tempi, si dice in questi casi. I suoi tempi. Sulla tragedia dell’Heysel litigò con Candido Cannavò, da duro a duro, sentiva il sangue dei tifosi non patteggiabile con la restituzione della coppa. Le battute con Michel Platini, il rimpianto (e il rimorso, forse) per Diego Maradona. Reclutò Alessandro Del Piero, che gli avrebbe poi soffiato il record juventino dei gol (188 a 178). Con i giocatori, per i giocatori, era papà, sarto, barbiere: spingeva verso le nozze e le cravatte, allontanava dalle barbe, dai capelli lunghi. Giampiero Boniperti è stato uomo del Novecento. Insieme, crebbero e diventarono grandi.

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