DDD
I migliori video scelti dal nostro canale

DARA: MI HANNO PROVOCATO...E POI...

Dal Senegal a Capriate, Dara ama il calcio: ma la provocazione razzista lo ha costretto a lasciare

"C’era solo un modo per non sentire più gli insulti: abbandonare il calcio. L’ho fatto". Pape Dara Mbengue, 26 anni, originario del Senegal, da 16anni in Italia. La squadra del Capriate era una seconda famiglia, fino a un anno fa lì...

Redazione DDD

Il senegalese Dara Mbengue giocava nella bergamasca con la maglia del Capriate: "Ho lasciato per non ascoltare più le frasi razziste". Il 26enne ha spiegato a Il Giorno: "Una passione, non un lavoro: lo facevo per divertirmi. Poi hanno iniziato a insultarmi, per il colore della pelle. E ho smesso di essere felice. Perciò ho abbandonato, avevo paura di essere ancora offeso nelle serie inferiori della bergamasca". Eppure Dara, tifosissimo del Milan e amante della filosofia ("penso che questo sia il motore del mio eccessivo senso critico"), mai avrebbe immaginato di dover lasciare per disperazione. "Ho sempre sofferto il razzismo, che ho subìto sin dall’arrivo in Europa. Il mio primo contatto con l’uomo bianco non è stato un invito a nozze e io mi sono improvvisamente sentito diverso. Ho sempre dovuto incassare delle offese, pagando la mia differenza di carnagione. Ma il fatto più doloroso è avvenuto in un campo di calcio dove in teoria ci si dovrebbe distinguere per colori solo parlando di maglie delle squadre".

E la mente torna all’autunno del 2019: "Giocavamo in casa della prima in classifica, il Boltiere, la squadra più attrezzata per vincere il campionato. Ero in stato di grazia, avevo già segnato 5 gol e fornito 4 assist dall’inizio del torneo e il fascino di quella sfida mi ispirava: volevo battere i migliori. Da trequartista il mister mi aveva spostato davanti alla difesa, eravamo meglio della capolista. Dopo quaranta minuti uno degli avversari simula un rigore nella nostra area ed io gli dico di andare a “tuffarsi in piscina“. Il loro numero 10 ribatte con una frase oscena: "Stai zitto negro di m... e torna al tuo paese". La scintilla che innesca il finimondo. "Da quell’istante ho perso la ragione: l’azione è proseguita senza che l’arbitro intervenisse, io ho falciato un avversario e in campo è scoppiato il caos. Sono arrivati i dirigenti sul terreno di gioco per calmarmi e trascinarmi negli spogliatoi anche perché dopo aver riconosciuto il giocatore che per primo mi aveva offeso anche io pronunciai frasi pesanti... In quel momento il direttore di gara mi sentì bene, cacciandomi. Ero fuori di me, una furia inarrestabile. Mi sembrava folle che fossi solo io a pagare e per questo non volevo lasciare il campo...". In realtà quella reazione è diventata un boomerang per Dara. "Sono passato nel giro di pochi minuti dall’essere l’anima della mia squadra al giocatore che stava compromettendo la partita per colpa di una provocazione razzista. Non furono belle scene: rovesciai le panchine negli spogliatoi e presi a pugni tutto ciò che mi si presentava davanti agli occhi. Avevo il presentimento che quella sarebbe stata la mia ultima partita, almeno in Italia. Non mi meritavo quegli insulti dopo tanti anni vissuti in questo paese. Io volevo solo giocare a calcio, scendere in campo e battermi lealmente, difendendo il mio senso d’appartenenza ad una comunità. Avrei preferito un insulto qualsiasi anche perché sui campi se ne dicono di tutti i generi ma la storia di un popolo non si tocca".

Quel che è accaduto dopo è stata la spinta in più per una decisione ormai presa: "Al giovedì mi annunciano il verdetto del giudice sportivo: 13 giornate di squalifica. Non aveva senso neppure aspettare, e quando la società mi infornò che non avrebbe fatto ricorso ho capito che ad essere razzista non erano solo il 10 del Boltiere e il giudice sportivo. Comunicai subito al presidente e al direttore sportivo di non contare più sulle mie prestazioni perché nemmeno loro mi avevano sostenuto e difeso a dovere. Forse non sanno cosa vuol dire essere trattati da “diversi”, anche se poi hanno cercato di farmi cambiare idea". Dopo un lungo periodo di riflessione la vita di Dara è cambiata. "Vivevo di calcio, ma lasciai tutto e me tornai in Senegal per metabolizzare il colpo. Quando sono rientrato, dopo 6 mesi, non avevo più voglia di riprendere. Spero un giorno di poter allenare i bambini, così da trasmettere loro dei buoni insegnamenti ma per adesso lavoro come operaio in fabbrica. Prima andavo a San Siro, adesso le partite me le vedo in tv. Certo, il mio desiderio è quello di tornare a calcare i campi di calcio prima o poi, ma solo all’estero in un paese dove sarò il benvenuto e non mi indicheranno di tornare al 'mio' paese...".

tutte le notizie di

Potresti esserti perso