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CROCEVIA UEFA

I dubbi e gli errori dell’UEFA: Financial Fair Play, il momento di cambiare

NYON, SWITZERLAND - JULY 10: In this handout image provided by UEFA, a general view prior to the UEFA Europa League 2019/20 Quarter-final, Semi-final and Final draw at the UEFA headquarters, The House of European Football on July 10, 2020 in Nyon, Switzerland. (Photo by UEFA via Getty Images)

Le modifiche del FPF sono necessarie e doverose, ma vanno fatte riducendo il perimetro valutativo e sanzionatorio del massimo organismo del calcio europeo

Redazione DDD

di Max Bambara -

Secondo le valutazioni in corso all’UEFA che, attualmente, si trova in un canale comunicativo aperto con il Parlamento europeo, sarebbe giunto il momento di cambiare il Financial Fair Play, al fine di introdurre un nuovo sistema di regole, estremamente diverso rispetto a quello che venne invece istituito nel lontano 2009. In base a quanto il massimo organismo del calcio europeo ha voluto far filtrare nelle ultime settimane, il nuovo sistema che dovrebbe subentrare all’attuale Financial Fair Play, non dovrà più essere fondato sul principio rigoristico dello “spendere quanto si incassa”, bensì sul principio più elastico dello “spendere il necessario, senza sprechi”.  In sostanza, questa versione riveduta e corretta del fair play finanziario dovrebbe concentrarsi sulla eliminazione degli sprechi e delle esagerazioni, soprattutto in riferimento agli stipendi dei calciatori ed alle commissioni degli agenti che continuano ad essere una delle voci di costo maggiori, ed in continuo aumento, all’interno dei bilanci dei club. Si è persino paventata la possibilità di imporre un tetto ai salari (anche se un salary cap modello americano non appare praticabile per ragioni di normative comunitarie) ed ai trasferimenti fra le società, oltre ad una ipotetica luxury tax, in base alla quale chi acquista il cartellino di un giocatore debba versare anche una percentuale da distribuire all’intero sistema.

 (Photo by Catherine Ivill/Getty Images)

Al di là delle intenzioni e provando ad osservare in maniera analitica l’intera questione, ci pare che l’UEFA abbia voluto sfruttare la crisi globale generata dalla pandemia per tentare di riformare un sistema di norme che, nonostante le difese d’ufficio, ha dimostrato negli ultimi anni di essere un vero e proprio tappo per la crescita dei club che non fanno parte dell’aristocrazia del momento. Nel 2009, in base alle idee iniziali dell’UEFA, il FPF avrebbe dovuto essere uno strumento funzionale e propedeutico allo sviluppo dei club, capace di venire incontro alle esigenze degli stessi, al fine di assicurare loro un contesto serio e sicuro in cui proporre dei modelli di calcio pienamente fedeli al concetto di sostenibilità. Non a caso gli obiettivi ispiratori della normativa sul FPF erano i seguenti: 1) introdurre più disciplina e razionalità nelle finanze dei club calcistici; 2) ridurre la pressione su salari e trasferimenti e limitare gli effetti dell’inflazione; 3) incoraggiare i club a contare solo sui propri profitti; 4) incoraggiare investimenti a lungo termine sul settore giovanile e sulle infrastrutture; 5) tutelare la sostenibilità a lungo termine nel calcio europeo; 6) assicurare il tempestivo pagamento dei debiti da parte dei club. Quanto avvenuto negli ultimi anni, ed in particolare subito dopo il 2016, anno in cui vi è stato l’avvento alla presidenza dell’UEFA da parte di Ceferin, è stato sempre in contrasto con questi principi, trasformando un’idea corretta e dai fini nobilissimi, in un’idea sbagliata e dalle conseguenze nefaste per i club che avevano la volontà di tornare ad essere competitivi.

Prendiamo a titolo di esempio il punto 3 che, fra tutti, è quello maggiormente interessato dai dibattiti contemporanei: “incoraggiare i club a contare solo sui propri profitti”. Si tratta di una dizione aperta, inclusiva, non casuale. In essa il verbo introduttivo “incoraggiare” non è sinonimo di una volontà impositiva o sanzionatoria. Tale formulazione lasciava pertanto libera la strada ai club sulle modalità tramite le quali arrivare alla sostenibilità finanziaria, estrinsecando una disponibilità dell’UEFA a favorire il piano di rilancio di un club, nell’ottica di un approdo finale verso un autofinanziamento visto, a ragione, come obiettivo di primaria importanza. Un obiettivo fondamentale quando si parla di un’azienda che avrebbe dovuto lasciare le proprietà dei club libere di scegliere la strada migliore per arrivare ad esso. L’UEFA, con questo principio ispiratore ab origine, doveva cioè porsi esclusivamente come organo ausiliario, utile nel fornire consigli, nel mettere a disposizione i suoi esperti per provare a vagliare soluzioni alternative in caso di crisi. Ed invece il verbo “incoraggiare” ha lasciato spazio alle imposizioni, alle ingerenze, all’eccesso normativo ed alla scure sanzionatoria di un organo divenuto decisorio, che è arrivato ad impedire a una nuova proprietà di investire nel club per renderlo più forte sul piano tecnico e per portarlo nel corso degli anni verso un normale livello di autofinanziamento.

Ciò è accaduto al Milan ed al fondo Elliott che è stato costretto, nell’estate 2019, a fare un accordo tombale con l’UEFA (rinunciando alla partecipazione alle coppe europee per una serie di passivi di bilancio puntualmente ripianati ed imputabili a precedenti gestioni), al fine di non cadere in un sistema sanzionatorio oltraggioso delle finalità inizialmente poste dall’UEFA alla base dell’adozione del FPF. Questi danni, non più risarcibili, non sono la conseguenza del destino cinico e baro; sono semmai la conseguenza prevedibile e prevista di una interpretazione talebana della normativa sul FPF che, in questa seconda metà degli anni 10, è diventata un vero e proprio mantra per l’UEFA, una sorta di manifesto rappresentativo della propria funzione. Il fair play finanziario, con il tempo, è diventato un combinato disposto di norme che, di fatto, hanno bloccato l’accesso all’élite del calcio europeo. Secondo il principio enunciato dall’UEFA, l’equilibrio finanziario di un club poteva prevedere passività soltanto entro limiti contenuti. Ciò sarebbe indiscutibile qualora stessimo parlando di società pubbliche che utilizzano denaro dei contribuenti per i loro scopi. Invece la normativa estesa del FPF si occupa di società private (detenute da soggetti privati o da fondi), in alcuni casi addirittura società per azioni, tutte società che dovrebbero essere libere di investire il denaro dei propri proprietari. Gli undici club in Europa che hanno superato i 400 milioni di euro di fatturato. (Manchester United, Manchester City, Arsenal, Chelsea, Liverpool, Real Madrid, Barcellona, Atletico Madrid, Juventus, Paris Saint German e Bayern Monaco) hanno ricevuto sinora protezione da questa normativa che, di fatto, ha impedito a chi voleva crescere di avere la possibilità di investire liberamente.

D’altronde, da sempre, l’unico modo per alzare il fatturato di una società sportiva (e quindi i ricavi) è rappresentato dai risultati sul campo e dalla disputa della Champions League per un certo numero di anni consecutivi. Per fare questo tuttavia, non è possibile derogare da investimenti robusti sulla competitività delle squadre, investimenti inizialmente coperti dai ripianamenti dell’azionista. Questo scenario si è svolto negli ultimi anni in un silenzio singolarmente assordante ed in un contesto normativo antitetico sul piano dei principi, in quanto l’inasprimento delle misure contenute nel FPF arriva a toccare le rive di alcuni baluardi della civiltà giuridica europea, come il diritto di concorrenza ed il diritto di proprietà. L’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea prevede espressamente come «ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporre e di lasciarli in eredità» e come «l’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale». Un organismo come l’UEFA non può permettersi di sindacare in ordine alle scelte che il proprietario di un club, legittimamente, vuole compiere con i propri soldi o, finanche, di sanzionarlo. In più l’attuale normativa sul FPF è antitetica col principio di concorrenza, caposaldo assoluto all’origine dell’Unione Europea fin dalla firma del Trattati di Roma negli anni 50.

Alla luce di ciò, discutere della riforma dell’attuale normativa è un palliativo che ha poco senso; l’UEFA dovrebbe semplicemente prendere atto di come sia ampiamente fallito il tentativo di normare in maniera avvolgente aspetti finanziari della vita dei club che, invece, non dovrebbero inerire l’organo organizzativo del calcio europeo. Continuare a regolamentare in maniera rigida le dinamiche relative al conto economico dei club sarebbe soltanto un errore concettuale. L’UEFA, semmai, dovrebbe valutare esclusivamente due aspetti per garantire un effettivo fair play finanziario: una eventuale eccessiva esposizione debitoria delle società e la capacità delle proprietà di garantire la continuità aziendale. Fuori da questi due ambiti, ogni intervento normativo dell’UEFA rischia di divenire un boomerang al contrario, atto a produrre effetti completamente opposti rispetto alle intenzioni. Questo, d’altronde, è stato il FPF fino ad oggi: un complesso di norme nato per abbattere il divario fra società ricche e società povere, che ha finito invece per aumentare a dismisura questa forbice.

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