editoriali

Il calcio e lo Scudetto facciano un passo indietro: nel 2007 il Milan per Antonio Puerta era pronto a rinunciare…

Redazione DDD

Le priorità del calcio ai tempi del Coronavirus. Il rispetto delle vittime viene prima di qualsiasi interesse di bottega

di Max Bambara -

In queste strane giornate, discutere di argomenti futili e non attinenti alla drammatica contemporaneità può forse apparire come una scelta sbagliata. Eppure di calcio, a nostro avviso, è giusto riuscire a parlarne, con i toni bassi e con la dovuta considerazione del momento. Come tutte le passioni però non è giusto metterla da parte. Qualche giorno fa abbiamo sentito più di qualche protagonista del calcio, sostenere che dopo quest’immane tragedia, sarà necessario cambiare anche il nostro modo di approcciare alla vita, alle cose che amiamo, alle emozioni che nutriamo. Ci sono poche considerazioni maggiormente pertinenti. Il momento è duro, quasi irreale nella sua complessità: attendere ogni giorno le 18 di pomeriggio per sentire quel drammatico bollettino trasmesso dalla Protezione Civile è una di quelle cose che ci porteremo dentro per molti anni a venire. C’è un’atrocità profonda in tutto questo: infatti dietro quei numeri sviscerati in maniera cronistica, ci sono un mondo di emozioni, un universo di rapporti familiari ed amicali, un fiume ininterrotto di lacrime, di vita vissuta e di esistenze che, da domani, avranno un senso di vuoto inspiegabile ed lacerante.

Probabilmente, subito dopo il dolore immenso per la perdita di un figlio, l’impossibilità di guardare negli occhi e di tenere la mano calda di chi ci sta lasciando nei suoi ultimi momenti, è una delle peggiori tragedie che possono capitare nella vita. Il calcio, in futuro, potrà fare moltissimo per ridare un senso a ciò che siamo come paese e come popolo, magari abbassando di un livello i suoi eccessi e ridandosi una dimensione umana che, da qualche tempo, sembra aver lasciato il posto a qualcosa di più vagamente plastificato. Cogliere questo, da parte dell’intero movimento calcistico, può e deve essere un segnale di maturità, di profondo rispetto verso una nazione che da questa epidemia non potrà che uscire diversa nelle priorità quotidiane e nella capacità di attribuire il giusto peso alle cose. Per tali motivi troviamo assurdi i continui battibecchi fra i presidenti sulla prosecuzione o meno del campionato o sulle potenziali date in cui riprendere gli allenamenti e le partite. Esattamente di cosa parliamo? Non siamo in grado di dire se questo “mostro” sarà ancora fra di noi fra un mese e mentre lo facciamo tanti italiani lottano fra la vita e la morte senza nemmeno la possibilità di godere della presenza dei propri cari. Se la serietà è un valore, e noi crediamo che dovrà essere un valore fondante della società italiana post virus, è il caso di mettere da parte certi discorsi, perché oggi il campo non solo non è una priorità, ma non è nemmeno un pensiero da mettere nell’agenda del prossimo mese. Se sarà possibile riprendere e terminare nei tempi più corretti questo campionato (ossia entro il 30 giugno), sarà un momento bellissimo perché vorrà dire che ci saremo lasciati alle spalle il mostro, ma se questo non dovesse avvenire, credere di poter coltivare il proprio orticello, traendo un vantaggio da questa situazione, significa non aver compreso appieno quale tornado invisibile ci ha investiti. Servono soluzioni figlie del buonsenso. In primis non sarebbe giusto penalizzare squadre che, nelle serie minori, hanno dominato i propri gironi e che erano in attesa soltanto della matematica per dare lustro alla propria storia sportiva.

Opportuna sarebbe poi la non assegnazione di uno scudetto che, attualmente, vede divise due squadre da un solo punto, con 12 partite ancora da giocare. Già l’assegnazione dello scudetto del 2006 all’Inter generò polemiche e veleni ancora oggi vivi nel calcio italiano. La Juventus, se si fregiasse di questo titolo, darebbe un segnale sbagliato di opportunismo peloso. Non s’ha da fare, per citare un mai così contemporaneo Alessandro Manzoni. Non è ovviamente per fare partigianeria (non può essere il caso in un momento del genere), ma il calcio italiano oggi deve guardare all’esempio del Milan nell’agosto del 2007. Nella parte finale di quell’estate infatti la squadra rossonera campione d’Europa in carica doveva andare a giocarsi la Super-coppa Europea a Montecarlo contro il Siviglia. In quei giorni però, un terribile arresto cardiaco strappò alla vita il giovane Antonio Puerta, terzino sinistro dalla formazione andalusa. L’Uefa disse subito che la partita doveva giocarsi comunque, ma il Milan non cercò di trarre un vantaggio da quella situazione: Galliani chiamò il presidente Del Nido e diede massima disponibilità a rinviare la partita vista la situazione. Fu il Siviglia a scegliere di giocare la finale e a convincere il Milan che era giusto farlo. Lo ritenne il modo migliore per onorare la memoria di Antonio Puerta. Il Milan vinse 3-1 in rimonta quella partita, con Kakà autore della terza segnatura che andò ad esultare insieme ai compagni dedicando il gol al giocatore del Siviglia scomparso, il cui nome era presente sulle magliette dei giocatori rossoneri. Quel giorno, per tutto il Milan, era molto più importante celebrare e rispettare chi aveva perso tragicamente la vita, piuttosto che alzare al cielo un trofeo internazionale. L’Italia, oggi, ha bisogno di esempi del genere e non di litigi su titoli da assegnare, partite da giocare e date da stabilire. Una soluzione per non rendere inutili sette mesi di stagione dovrà essere trovata per forza, ma lasciando da parte interessi di bottega e polemiche di cortile che sono buone esclusivamente ad oltraggiare il dolore di queste tremende settimane avvolte da un silenzio che fa rumore.