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editoriali

Il certosino Pioli: il lavoro dell’allenatore al di là dei semplici aspetti di campo

PARMA, ITALY - DECEMBER 01:  Stefano Pioli head coach of AC Milan  gestures during the Serie A match between Parma Calcio and AC Milan at Stadio Ennio Tardini on December 1, 2019 in Parma, Italy.  (Photo by Alessandro Sabattini/Getty Images)

Che fine ha fatto il #PioliOut?

Redazione DDD

di Max Bambara -

Sembrano molto lontani oggi i tempi di quell'hashtag decisamente poco in linea con la tradizione del club, col quale i tifosi rossoneri invitavano la dirigenza a non prendere Pioli, bruciati forse dall'improvviso black out della trattativa che avrebbe dovuto portare Luciano Spalletti sulla panchina del Milan. Eppure in quel preciso momento in cui l’esonero di Marco Giampaolo non poteva essere procrastinato per ovvi ed evidenti motivi gestionali, ci furono due atteggiamenti completamente diversi che, rivisti oggi, non possono non venire pesati sulla bilancia del buonsenso. Ci fu un tecnico con una buona (non ottima) carriera alle spalle, che mise una questione economica (l’entità della buonuscita dal vecchio club) dinanzi al prestigio di sedersi sulla panchina del Milan e all’adrenalina di misurarsi in un contesto del genere.

E poi più sfuocato, quasi nell’ombra, ci fu un allenatore reduce da una lettera di dimissioni in quel di Firenze (istituto quasi desueto in un mondo del calcio nel quale si rimane a libro paga fino all’ultimo giorno utile), che accettò subito quella che forse, per lui, è la sfida più grande della sua carriera. Già all’epoca, una mente lucida e non accecata dai bagliori dell’umore, avrebbe potuto scorgere questa differenza abissale fra i due profili comportamentali e fra le due paste umane, rispettabili entrambe, ma molto diverse nell’approccio al lavoro. L’entusiasmo con cui Pioli è venuto al Milan è stato sicuramente un ottimo presupposto, ma da solo non sarebbe chiaramente stato sufficiente per ridare al Milan una sua dimensione di squadra che, purtroppo, fino ad allora non aveva mai avuto.

Si dice che la luna di miele degli allenatori duri circa due settimane: si tratta di quel lasso di tempo utile al gruppo per mettersi in mostra, per alzare la soglia della competitività nella speranza di ribaltare alcune gerarchie. Passati 15 giorni, le carte vengono poi scoperte. Ed è lì che un allenatore si pesa per ciò che vale e per ciò che riesce a trasmettere al gruppo. Puoi essere il migliore allenatore del mondo, il più bravo, il più pagato, addirittura quello con più titoli nella bacheca, ma se non riesci a trasmettere ciò che vuoi e ad essere credibile verso la squadra, sei mestamente destinato a fallire. Per un allenatore che subentra, concetti del genere sono addirittura molto più estremi, perchè l’ambiente che circonda la squadra si aspetta un cambio di rotta immediato, come se un tecnico avesse in mano la bacchetta magica di Mago Merlino.

Ed invece non è così. Il calcio è uno sport rigoroso, difficile, tremendamente bello nella sua casualità ed in quella crudeltà che ti fa pensare tante volte come sia possibile non vincere una partita che hai dominato e che avresti dovuto stravincere. Per Pioli, suo malgrado, l’inizio è stato improntato a riflessioni del genere, con quel beffardo gol del leccese Calderoni nei minuti di recupero che poteva già indirizzare verso l’anonimato una stagione strana come quella attuale. Non è stato così: il Milan, pur passando da risultati negativi, ha migliorato sensibilmente il livello delle sue prestazioni. Le sconfitte con le due romane sono state figlie di errori individuali, causati dalle insicurezze del gruppo.

Il contesto di squadra tuttavia stava già iniziando a migliorare e ad implementarsi. La sconfitta contro la Juventus, analizzata fuori dalla grande prodezza di Dybala, avrebbe potuto essere qualcosa di diverso. Mai il Milan, negli ultimi anni, aveva giocato così bene in casa della Juventus: positivo, propositivo, a volte persino sfrontato. Tante occasioni da gol create e la sensazione che con un po’ di killer instinct in più davanti al portiere, la partita avrebbe addirittura potuto terminare con un risultato clamoroso. Da lì però la rotta stagionale si è finalmente invertita, anche in ragione di una condizione fisica che è andata in crescendo, con tanti giocatori che piano piano sono riusciti a ritrovare brillantezza e qualità sia nelle giocate e sia nella corsa. Il lavoro certosino di Pioli ha così iniziato a dare i suoi frutti.

Il tecnico ha capitalizzato molte risorse del gruppo agendo sulla sicurezza e sulle motivazioni: ha saputo insistere su Conti che, dopo la gara contro la Roma, veniva banalmente giudicato come un ex giocatore. Ha creduto in Piatek che, senza il gol, non riusciva a dar senso alle proprie prestazioni. C’è un frame di questa porzione di stagione che dà l’esatta dimensione del vero lavoro di Stefano Pioli al Milan: fischio finale della partita del Tardini ed il mister chi va ad abbracciare ed a coccolare subito? Kessiè, che era stato uno dei peggiori in campo e che al momento della sostituzione era uscito col viso cupo e scontento. In quel gesto si vede non soltanto l’allenatore intelligente, ma soprattutto l’uomo vero che capisce quanto sia importante lavorare sulla testa dei propri ragazzi, facendoli sentire coinvolti anche quando le cose non vanno bene, mettendoli al centro degli eventi e dando ad ognuno di loro la sensazione di essere importante.

Aver trovato quasi per caso quest’allenatore e questo tipo di figura umana sulla nostra strada è una sorta di benedizione piovuta dal destino. La classifica non è ancora buona, ma abbiamo ripreso ad essere squadra, ad avere un senso. Non è poco. Chissà se, alla fine di questa stagione, saremo costretti a dire grazie alla buonuscita di Spalletti. Per il momento possiamo solo auspicarlo.

 

 

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