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Il lascito del Milan d’Oriente

Il lascito del Milan d’Oriente - immagine 1

Quello che hanno insegnato ai milanisti i 15 mesi di gestione Fassone-Mirabelli

Redazione DDD

di Max Bambara -

Con l’annuncio della firma di Frank Kessié col Barcellona (4 anni di contratto fino al 30 giugno 2026), finisce definitivamente qualsiasi legame del Milan attuale con il Milan gestito dalla proprietà cinese che, nell’estate 2017, sconvolse il mercato con un atteggiamento invasivo e particolarmente esposto sul piano mediatico. I tifosi rossoneri, all’inizio, erano rimasti sedotti dal vento della novità e dalla prospettiva, ingannevole con il senno del poi, di poter costruire un’epoca vincente a suon di colpi milionari e di acquisti in pompa magna. Così, ovviamente, non è stato. Nessuna squadra al mondo può vincere o, comunque, creare i presupposti per la propria competitività, se deroga dalla costruzione di una propria identità. L’identità non si può costruire a colpi di milioni di euro sull’onda di un sensazionalismo di facciata; deve, semmai, essere forgiata nel rispetto sacrale della storia, della tradizione e della cultura del club. Al Milan detenuto dalla proprietà cinese mancava questa sensibilità, sia per limiti nella capacità di approccio al mondo rossonero, sia per ragioni strettamente connesse al modus agendi della dirigenza dell’epoca. Marco Fassone e Massimiliano Mirabelli erano più preoccupati di marcare le differenze con la precedente gestione del Milan piuttosto che dare sostanza ad una squadra che è stata costruita su un equivoco tecnico. L’idea di fondo, infatti, era creare un Milan che si potesse qualificare agevolmente alla Champions League. Tuttavia è stata ignorata totalmente la base dalla quale si partiva (63 punti nel precedente campionato ed una qualificazione all’Europa League) e si è costruita una squadra con poca fisicità e con nessun giocatore in grado di dare strappi e di alzare i ritmi di gioco. Non era un Milan moderno, bensì era un Milan con buoni giocatori, assemblati in maniera inadeguata. Tuttavia, al di là dell’aspetto tecnico, le ragioni principali per le quali quel Milan 2017-2018 non aveva futuro erano essenzialmente due. In primis perché, a quel Milan, mancava un’anima. In secondo luogo perché gli mancava una visione. Entrambi questi elementi sono autonomi, ma perfettamente collegati.

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L’anima è il presupposto fondamentale per creare una visione. Quando Berlusconi prese il Milan nel 1986 c’era un’anima di giocatori che venivano dal settore giovanile che sono stati la base di quella squadra. Una base che è stata coccolata, elogiata, fatta sentire importante, non soltanto in quei giocatori che avevano le stimmate dei fuoriclasse (Maldini e Baresi), ma anche in quegli elementi che non erano considerati dei fenomeni (Tassotti, Galli, Costacurta, Evani). Da lì nacquero i presupposti per la visione. La visione utopistica del presidente Berlusconi fu il barometro che orientò scelte, investimenti, ragionamenti, rischi. Era una visione ambiziosa, forse folle, ma veniva perseguita con un credo determinato e nella consapevolezza di cosa fosse il Milan nella storia del calcio. Nel Milan cinese non vi era nulla di tutto questo. L’improvvisazione era una bussola imperfetta e gli acquisti milionari venivano ritenuti il lasciapassare unico per un rapido ritorno alla competitività. Il calcio però non è questo perché non si alimenta di tali cose. I giocatori di quell’epoca hanno assorbito quel clima e ne sono rimasti probabilmente vittime. Kessié è soltanto l’atto finale di un melodramma che non è evoluto in tragedia soltanto grazie all’intervento provvidenziale del fondo Elliott. Oggi il timone della nave è saldo e la navigazione prosegue in acque non agitate. Anima e visione si coniugano perfettamente in uno spirito costruttivo, armonico, a tratti simbiotico, in cui il Milan viene messo davanti a tutto, anche davanti alle pretese fuori mercato di certi giocatori. Il Milan, in sostanza, è rinato dalle proprie ceneri. Di quell’epoca cinese rimane soltanto il ricordo, un ricordo che rimane indelebile perché può e deve farci capire che non esistono scorciatoie per la vittoria nel calcio e che i traguardi sono sempre il risultato di scelte ponderate e di sacrifici figli del sudore e dell’abnegazione. In troppi hanno pensato che bastassero una valanga di milioni di euro per battere le altre concorrenti. Mai pretesa fu più luciferina.

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