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Il valore del pragmatismo: il Milan ha scelto la via della praticità e della profondità

PARMA, ITALY - DECEMBER 01:  Stefano Pioli head coach of AC Milan  gestures during the Serie A match between Parma Calcio and AC Milan at Stadio Ennio Tardini on December 1, 2019 in Parma, Italy.  (Photo by Alessandro Sabattini/Getty Images)

Il valore del cambiamento 2020 del Milan

Redazione DDD

di Max Bambara -

Se non puoi essere bello, accontentati di essere efficace. In questa frase potrebbe sintetizzarsi la rivoluzione del Milan, successiva alla batosta contro l’Atalanta ed all’arrivo a Milanello di Zlatan Ibrahimovic. La bellezza nel calcio è un valore che ha una sua pregnanza e che, dal punto di vista storico, avrà sempre un legame speciale con il Milan. D’altronde, è stato proprio il Milan di Arrigo Sacchi a cambiare il calcio e ad introdurre il concetto del bel gioco come strada maestra per arrivare ai risultati. Il Milan di oggi non rinnega sé stesso, non potrebbe mai farlo nemmeno volendo, dato che ciò che siamo viene dal nostro passato per il quale abbiamo solo rispetto, stima e persino devozione. Il Sacchi che ha cambiato il calcio però (allenando la squadra più forte del mondo) è lo stesso Sacchi che, lontano dal Milan, non ha più vinto nulla e soprattutto non è riuscito a riproporre le sue idee di calcio nella stessa maniera. Smise giovane di allenare l’immenso Arrigo, forse vittima della propria coerenza assoluta, di una fede cieca in un ideale immutabile, nonché di quel difetto tipico di tutti i geni che non consente loro di considerare il pragmatismo un pregio.

Essere pragmatici in realtà è una dote non comune, che permette di analizzare le situazioni contemplando l’esistenza di altri punti di vista che vengono esaminati senza la lente detonante dell’ideologia. Il pragmatico non insegue un’idea, né ha la pretesa di venerarla. Il pragmatico prova semmai a capire quale idea può essere più adatta al contesto in cui ci si trova, alla situazione del momento. Questo è esattamente ciò che sta facendo oggi il Milan di Stefano Pioli che, da qualche partita, ha abbandonato il possesso palla e l’uscita da dietro come prime opzioni dell’incipit dell’azione. Non lo ha fatto per scelta ideologica, ma in base ad una forma coraggiosa di pragmatismo. Oggi questa squadra, con i suoi limiti strutturali, è decisamente meno aggredibile se invece di inventare il possesso, si appoggia alle punte per salire. L’efficacia come valore è stata anteposta alla bellezza, visto che l’estetismo come ideale non era raggiungibile continuando a proporre uno stile di gioco che va di moda, ma che se non viene interpretato alla perfezione rischia di rivelarsi più in uno svantaggio (palle perse in quantità e ripartenze mortifere degli avversari) che in un reale vantaggio.

Non è casuale che le tre squadre più prolifiche della Serie A (Atalanta, Lazio e Inter) non considerino lesa maestà scavalcare il centrocampo e appoggiarsi subito sulle punte e che, anzi, molti dei loro gol nascano da queste situazioni (vedasi 2 dei primi 3 gol della Lazio sabato scorso contro la Sampdoria). In un campionato così tattico come quello italiano, il gioco raffinato a tutti i costi possono permetterselo solo le squadre che hanno una nobiltà di piedi assoluta in mezzo al campo, capace di unire la precisione della giocata con la velocità d’esecuzione. Viceversa, il rischio concreto è quello di diventare pressabili e di perdere credibilità e fiducia nella propria proposta offensiva. L’ideologia, la fedeltà assoluta ad un modulo o ad un’idea calcistica, sono quasi sempre forieri di avversità. Non portano risultati, anzi arrivano a logorare uomini, situazioni, rapporti. Proprio il Rigamonti di Brescia come stadio (nel quale il Milan andrà in scena stasera) ci fornisce un aneddoto storico, particolarmente adatto al tema affrontato. L’ultima volta che il Milan giocò a Brescia nel mese di gennaio vinse 1-0 con gol di Pancaro, rete che fu decisiva nel lungo percorso che portò alla conquista del diciassettesimo scudetto. La penultima volta invece era, precisamente, la fine del mese di gennaio del 2001. Finì 1-1, con gol di Bierhoff e Hubner. Molti l’avranno rimossa nella memoria, anche perché non fu una partita indimenticabile. Probabilmente però quella gara segnò irrimediabilmente il destino di Alberto Zaccheroni sulla panchina del Milan. Il tecnico di Cesenatico infatti aveva vinto lo scudetto al primo anno con la squadra rossonera giocando col suo caro e mai abiurato 3-4-3 (con la variante del 3-4-1-2 nelle ultime 7 partite, su cui la letteratura rossonera fornisce spiegazioni diverse). Zaccheroni non entrò mai nel cuore del presidente Berlusconi, perché i due avevano una visione del calcio molto diversa. Nel gennaio della stagione 2000-2001, il Milan non stava andando bene in campionato. Era ancora in corsa in Champions League e in Coppa Italia, ma il distacco dalle prime posizioni stava divenendo preoccupante.

Una settimana prima di quella partita, il Milan riuscì però nell’impresa di battere la Roma capolista a San Siro per 3-2. Un grande successo, ottenuto con la difesa a 4, con Bierhoff in panchina e Shevchenko (autore di due reti) schierato nel ruolo di centravanti, con Josè Mari, Leonardo e Serginho alle sue spalle. Sembrava che il Milan avesse finalmente trovato la svolta stagionale con un modulo maggiormente equilibrato e quindi più adatto ad una squadra di buona qualità, ma che faticava a stare in campo con una difesa a tre, avendo tanti difensori centrali over 30 (Costacurta, Maldini, Chamot). Ed invece la domenica successiva, fra lo stupore di molti tifosi rossoneri, Zaccheroni tornò con ostinata convinzione al suo amato 3-4-3. Un mese e mezzo dopo arrivò il suo esonero. Nonostante un grandissimo risultato ottenuto contro la squadra migliore del campionato, il tecnico di Cesenatico non era stato capace di mettere da parte le sue idee per il bene della squadra. Forse proprio quello fu il motivo per cui Zac (tecnico serio e preparato, oltreché persona di enorme educazione) non riuscì ad avere una carriera importante come allenatore nel suo prosieguo. Di geni che cambiano il calcio, rimanendo fedeli ad una ideologia, ne capita uno ogni cento anni. Sacchi è stato, nella storia del Milan, l’uomo giusto al momento giusto. Tutti gli altri allenatori, piaccia o meno, devono adattare le idee al contesto, altrimenti si finisce vittime di sé stessi e di una visione del gioco improntata ad un dogmatismo vuoto. Il Milan di questa stagione, con grande umiltà, sta provando a essere pragmatico. Dove arriverà non è dato sapere, ma se oggi abbiamo almeno un obiettivo reale (il sesto posto) lo dobbiamo a questa svolta. Ci sarà tempo in futuro per ridare vigore alla bellezza come strada maestra per arrivare al risultato. Oggi, in un’epoca storica molto diversa dai tempi d’oro berlusconiani, abbiamo però il dovere di mettere la competitività al primo posto del nostro personale Pantheon.

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