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di Max Bambara -
“I big rimarranno? Non lo so, vediamo”. Questa frase di Giorgio Furlani non è piaciuta molto al popolo milanista ma, oggettivamente, è stata interpretata male e non si è compreso realmente cosa ci fosse dietro tutta una serie di considerazioni espresse dall’Amministratore Delegato. Il senso dei ragionamenti del CEO milanista, infatti, non è quello che è stato volgarmente tratto, ossia di un Milan pronto a cedere chiunque. Il punto fondamentale, semmai, è un altro. Oggi un club calcistico di alto livello non può più beneficiare in maniera costante delle iniezioni di capitale da parte del proprio azionista. Essenzialmente per due ordini di ragioni. In primis poiché i costi del calcio attuale sono incommensurabili rispetto ai costi del calcio del ventennio precedente. In secondo luogo perché i fondi che investono nel calcio, non essendo di proprietà di presidenti appassionati, nel lungo periodo devono, per ovvie ragioni, ottenere un guadagno dal proprio investimento.
E qui veniamo al nodo centrale della tematica
Il Milan per oltre 20 anni ha vissuto delle iniezioni di capitale della Fininvest e del Presidente Silvio Berlusconi. Finché i costi del calcio sono stati sostenibili (più o meno fino al 2006) il binomio ha funzionato ed è stato vincente; successivamente però è entrato in crisi perché quel tipo di visione strategica non era più sostenibile sul piano finanziario. Se il Milan, nel post Atene 2007, avesse avuto l’intuizione di cambiare subito strategia gestionale, probabilmente oggi la storia rossonera avrebbe avuto declinazioni diverse. Di fatto i reduci di Atene hanno smesso o sono andati via a scadenza di contrato qualche anno dopo (Maldini, Inzaghi, Seedorf, Ambrosini, Gattuso, Nesta, Pirlo, Dida, Oddo, Jankulovsky) senza portare nemmeno un euro nelle casse del club rossonero che, in tal modo, stante le difficoltà dell’azionista, non ha potuto autofinanziarsi, acquistando sostituti più giovani. L’unico giocatore ceduto per denaro, Kakà nel 2009, non è andato via per finanziare nuove operazioni in entrata, bensì per sopperire ad una perdita di bilancio che, in quel momento, non era sostenibile dall’azionista di riferimento.
Quella che viene volgarmente definita “banter era”, iniziata nel 2012, nasce proprio da una mancanza di visione del Milan di Silvio Berlusconi che, nell’ultimo tratto del proprio percorso, non ha avuto la lucidità di comprendere che era necessario modificare strategia per rimanere competitivi ad alti livelli e che l’epoca dei campioni che rimanevano al Milan fino alla fine della loro carriera, o quasi, non era più sostenibile. Oggi Giorgio Furlani ci dice che il Milan non ha bisogno finanziariamente di cedere nessuno ma, come nel caso di Sandro Tonali, fa capire che tutto può succedere perché un grande club ha il dovere di valutare qualsiasi offerta per i suoi giocatori, atteso che la fase in cui il calcio si reggeva sulla munificenza di certi presidenti è finita da molto tempo. C’è un esempio simile in Europa. Il Real Madrid, più volte campione d’Europa negli ultimi anni, negli ultimi anni ha accettato di cedere Cristiano Ronaldo, Varane e Casemiro dinanzi ad offerte altissime, per poi reinvestire il ricavato sui loro sostituiti (Vinicius, Militao e Tchouameni). In tale contesto il Milan che, ad ora, fattura circa la metà della squadra spagnola, non può certo permettersi di fare ragionamenti diversi e ciò rende esattamente quelle che sono le ragioni che si celano dietro le parole di Giorgio Furlani.
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