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EPOCHE DIVERSE E MILAN DIVERSI

Leao-Pato: analogie nel talento, ma percorsi opposti

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Pato ha avuto davanti a sé la possibilità di capire l’importanza del calcio europeo da una prospettiva privilegiata. Esattamente il contrario di ciò che è accaduto a Leao.

Redazione DDD

di Max Bambara -

I giocatori offensivi maturano quasi sempre con un filo di ritardo. Raramente si vedono attaccanti diventare continui a 20 anni. Avere i mezzi tecnici e fisici è una condizione fondamentale ma, da sola, non può essere sufficiente per diventare un giocatore determinante ed impattante. Le qualità sono un presupposto senza il quale non esisterebbe quello che in molti chiamano talento grezzo, ma non possono essere una culla morbida da cui farsi avvolgere, né una campana di vetro sotto la quale pensare di poter albergare. Ciò risulta veritiero soprattutto nel calcio moderno, in cui la componente agonistica è estremamente aspra ed è sottoposta continuamente ad una serie di solleciti, in ragione delle tante partite ravvicinate a cui sono chiamate le squadre. La continuità di rendimento, pertanto, è il vero discrimine fra un buon giocatore ed un campione. Se un attaccante riesce ad incidere in quasi tutte le partite in un campionato di vertice, può pensare di diventare un campione. Se, invece, un attaccante pecca in continuità ed alterna prestazioni convincenti a prestazioni da ectoplasma, il cammino è ancora lungo, impervio e complicato. Ci sono stati giocatori in passato che hanno avuto colpi da fuoriclasse assoluti, ma che non hanno mai trovato quella continuità di rendimento e quella maturità tecnica, utile per fare il salto decisivo. A Milano, sponda rossonera, un giocatore simbolo da questo punto di vista è stato Alexandre Pato. Il ragazzo venuto dal Brasile aveva le stimmate del predestinato, tanto è vero che iniziò il suo percorso rossonero con tanti gol e giocate importanti praticamente sin dalla sua prima partita con la maglia rossonera. Pato aveva tutte le migliori qualità, sia sul piano tecnico, sia sul piano fisico. Gli mancava tuttavia la capacità di soffrire, di lavorare su sé stesso, di trovare una dimensione calcistica che andasse oltre l’allegria brasiliana. I campioni si forgiano nella sofferenza, crescono coi dolori, migliorano sugli errori. Pato, invece, non sapeva soffrire, aveva una soglia del dolore molto bassa e non sapeva lavorare sui propri sbagli. Quando saltò lo scambio Pato-Tevez nel gennaio 2012, il ragazzo aveva davanti a sé una grandissima occasione a soli 22 anni: dimostrare che era capace di prendersi il Milan, diventarne il leader, l’alfiere, il trascinatore. Non la colse e preferì trovare sempre una scusa, un alibi o, al più, un capro espiatorio dietro i propri problemi fisici e dietro la sua cronica incapacità di maturare e di assumersi delle responsabilità. Il percorso professionale di Rafael Leao è stato diverso rispetto a quello di Pato. Innanzitutto il suo arrivo al Milan avvenne nell’estate del 2019, in un contesto molto diverso rispetto all’estate 2007. Dodici anni prima Pato era arrivato in un Milan campione d’Europa in carica che per lui costituiva un punto di osservazione avvantaggiato. In quel Milan c’erano infatti campioni veri, giocatori che avevano vinto tutto, ma che avevano ancora tanta voglia di dimostrare che non erano finiti. C’era un’etica del lavoro e del sacrificio che veniva da anni di esperienze, di vittorie, di doverose celebrazioni.

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Il Milan in cui arriva Rafael non è un Milan grandi firme. C’è un allenatore nuovo che si dimostra sin da subito inadatto a gestire le pressioni di una piazza come Milano e c’è una dirigenza in formazione, con tutte le asperità nascenti da una situazione del genere. C’è, soprattutto, una squadra giovanissima, senza leader, senza riferimenti, priva di un’identità. Leao mostra qualità importanti, segna anche un gol da fenomeno (nella sconfitta casalinga contro la Fiorentina), ma rimane un progetto di campione che non riesce a trovare sostanza. Col tempo cresce, ma le sue radici da fenomeno continuano ad abbeverarsi in quell’acquitrino pericoloso chiamato discontinuità. Da qualche mese invece, in questa nuova stagione sportiva, in Leao è scattato qualcosa che nessun allenatore insegna e che nemmeno un campione come Ibrahimovic poteva mostrargli perché ci sono cose che non si spiegano, né si vedono. Si devono sentire e basta. Leao ha fatto un salto mentale importante ed è diventato un giocatore vero. Nei suoi primi due anni di Milan aveva segnato 6 reti in 31 partite il primo anno e 6 reti in 30 partite l’anno successivo. Quest’anno è a quota 6 reti dopo sole 18 gare. Prima segnava un gol ogni 5 partite, oggi ne segna uno ogni 3. Il ragazzo portoghese è cresciuto altresì nella capacità di fare assist, di vedere e di leggere il gioco. Ed è salito di livello anche nella qualità dei suoi assist e nell’intelligenza con cui sta in campo (ripiegamenti in fase di non possesso, fase difensiva, capacità di scegliere la zona di campo in cui ricevere il pallone). Il Leao di oggi è un altro giocatore rispetto a quello dei primi due anni rossoneri. Da ragazzo promettente che si specchiava nel suo talento, si è trasformato in giocatore vero che mette il talento a disposizione della squadra. Un percorso lineare, completamente opposto a quello di Pato. D’altronde c’è una differenza fondamentale fra i due che può essere sintetizzata con un nome: Ibrahimovic, ovverosia il giocatore mentalmente più forte degli ultimi 20 anni in Europa. Pato si è ridimensionato sotto l’ombra di Ibra, ne ha subito gli umori, il carisma e la personalità. Non è un caso se l’ultimo squillo in maglia rossonera (aprile 2011, doppietta nel derby) risale ad una partita in cui lo svedese non c’era perché squalificato. Leao invece dalla presenza di Ibra ha saputo imparare alcune cose, prima fra tutte la capacità di soffrire. E, col tempo, Rafael ha messo in pratica ciò che ha imparato senza considerare Ibra un fastidio, bensì cogliendo nel suo ritorno al Milan una grande opportunità per crescere, per maturare, per imparare. Un grande filosofo diceva che la verità è figlia del tempo. Prima o poi arriva. Orbene c’è un aspetto significativo che va evidenziato: a quasi 23 anni la carriera ad alto livello di Alexandre era praticamente finita, tanto che l’ex numero 7 rossonero scelse di tornare a giocare in Brasile, in un contesto calcistico con minori pressioni. A quasi 23 anni, invece, la carriera ad alto livello di Rafael Leao sta trovando una svolta positiva ed il ragazzo sembra essere pronto a spiccare il volo dopo essersi forgiato nella sofferenza e nel lavoro. Differenze che, da sole, danno l’esatta dimensione di due percorsi completamente opposti.

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