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IL PUNTO DI VISTA DEL GIOCATORISTA

Paulo Dybala: peccato…

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Sette stagioni, 117 gol, 5 scudetti, 4 Coppe Italia, 3 Supercoppe

Redazione DDD

analisi Facebook di Roberto Beccantini -

Non è un epinicio e neppure un epicedio. Capisco la Juventus, capisco Paulo Dybala, ognuno ha fatto i propri interessi, la storia fisserà i confini di un addio che, in questi avventurati tempi di guerra, non va drammatizzato né enfatizzato. E’ la vita, dicono quelli che possono ancora permettersela. Scritto che non è mai stato un leader ed era (diventato) di una fragilità imbarazzante, per sé e per la squadra, ebbene sì: mi dispiace. E’ un numero dieci che ha sbagliato epoca, un soffio di poesia che pensava bastasse un dribbling per sfamare le pance dei tifosi, un chierichetto che, lo sapete, mi ricorda un demonio: Omar Sivori. Per quel sinistro improvviso e scintillante, per quei dribbling felpati e quei calzettoni non proprio alla caccaiola (è vietato, maledetti parastinchi) che, ogni tanto, mi facevano uscire dai rutti del pressing, che restano momenti liberatori e quasi obbligatori, per carità, ma che, insomma, non ho mai trovato eccitanti come un tunnel in cui rifugiarmi.

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Paratici lo aveva già piazzato al Manchester United in cambio di Lukaku, e chissà che piega avrebbe preso la storia. Sono un mendicante di emozioni, sono un giocatorista che si ciba di fiamme e non di cerini. Mancano ancora otto giornate e, come minimo, una semifinale di Coppa Italia. Non ho dubbi che l’Omarino onorerà gli spiccioli di contratto come stanno facendo Insigne, già del Toronto, a Napoli, e Kessié, già del Barcellona, al Milan. Peccato, anche, perché l’intesa con Vlahovic prometteva. Però le pause. Però gli infortuni (con il Covid pipistrello sinistro). Però l’offerta al ribasso. Però la cricca dalla quale si faceva rappresentare. I soldi non sono miei e, dunque, mi fermo. Una carriera sulle montagne russe, fra la doppietta al Barça di Messi e il «ritiro» di Cardiff, contro il Real del marziano, dopo il giallo beccato ai primi graffi.

Da un vecchio «Guerino» ho recuperato ‘sto pezzetto. Ve lo giro. «Traducendo Jim Morrison: "A volte basta un attimo per scordare una partita, ma a volte non basta una partita per scordare un attimo". Se ne avete la forza, riprendete in mano Lazio-Juventus del 3 marzo 2018 e ditemi, in tutta franchezza, se ricordate un livello più basso, un contesto più barboso. Eppure erano di fronte gli attacchi migliori, eppure c’era in campo il capo-cannoniere, Ciro Immobile. Eppure, eppure. Una noia deprimente. Una boiata pazzesca. Fino al minuto 93. Fino a quando, cioè, Paulo Dybala non ha infilato il corpo e il sinistro nella spazzatura per estrarre uno dei gol più strabilianti del campionato (e non solo). In rapida sintesi: 1) controllo del passaggio di Daniele Rugani; 2) tunnel a Luiz Felipe; 3) wrestling con Marco Parolo e vittoria ai punti; 4) bisturi mancino e incrociato da terra, con l’avversario addosso, nell’angolo lontano, come Omar ai suoi bei dì contro la Fiorentina. Tutti in piedi i non allineati, i liberi docenti del viva il singolo. Tutti distrutti gli allineati, i docenti non sempre liberi del viva lo schema. Resta l’attimo. Resta, nei secoli, Jim Morrison».

Piccolo Sivori o, più spesso, Sivori piccolo, Dybala non è stato il lampadario che la Juventus avrebbe sperato. E’ stato una lampadina. Si può tranquillamente sostituire, sempre che gli elettricisti siano all’altezza. Per il dopo Baggio, la Triade aveva pronto Alessandro Dal Piero. Vedremo stavolta, Dusan Vlahovic a parte (a parte per modo di dire). Ma ripeto: mi mancherà.

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