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editoriali

Rangnick-Conte, derby mediatico agli opposti: diffidenza per il tedesco, guanti bianchi per il tecnico dell’Inter

Ralf Rangnick potrebbe diventare fra qualche settimana il nuovo allenatore del Milan. Antonio Conte invece, fra qualche settimana, potrebbe mettere in discussione il suo rapporto contrattuale che lo lega all’Inter.

Redazione DDD

di Max Bambara -

Difficile trovare due personaggi così diversi come approccio al calcio e come visibilità mediatica. Tanto è riservato ed abituato ad agire nell’ombra Rangnick, tanto è esposto Conte; il tedesco ama plasmare i giocatori con potenziale, mentre il tecnico italiano preferisce giocatori esperti e già fatti. Fra i due c’è un atteggiamento totalmente diverso, sul piano del giudizio, da parte della stampa italiana; non è una considerazione figlia del tifo o della bandiera, ma della mera osservazione della realtà delle cose. Rangnick è già stato bollato come inadatto al calcio italiano, come operazione altamente rischiosa e come salto nel vuoto da parte del Milan; Conte invece viene pesato più per ciò che dice, piuttosto che per il calcio che la sua squadra cerca di proporre.

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Per il tedesco si è scelto da subito, ancora prima che arrivasse, il venticello della diffidenza come accoglienza, mentre per Conte non può che essere il contrario: lui è l’uomo forte che va dove viene accontentato e quando parla viene udito come un santone. Il problema di fondo è che questo tipo di visioni vengono poi accolte acriticamente da chi ascolta e, erroneamente, si diffonde la convinzione che il grande allenatore sia quello che chiede giocatori, che si lamenta della propria società davanti ai microfoni e che minaccia le dimissioni se non viene accontentato. Nulla di più falso oltre che di tendenzioso: il grande allenatore (o manager se vogliamo usare un termine più adatto al futuro tecnico del Milan) si adegua alle esigenze del club, lavora per migliorarne le risorse tecniche a disposizione, circoscrive il confronto fra le mura amiche e mai all’esterno.

In tanti anni di Milan a Carletto Ancelotti non sono andate bene tante cose (come è normale che sia in un rapporto lungo): dal riscatto mancato di Crespo, sino a qualche operazione più mediatica che tecnicamente funzionale alla squadra (Ronaldinho). Tuttavia mai una parola ha pronunciato contro la sua società. Conte non riesce ad essere così: ha sviluppato negli anni un ego smisurato che, ad ogni risultato negativo, lo porta a spostare il mirino della critica da alcune sue scelte di campo altamente discutibili a presunte decisioni non corrette della società che allena. Ciò lo ha portato a fare sempre benissimo dovunque è andato negli ultimi anni, ma a lasciarsi sempre nella maniera peggiore. Dai freddi silenzi dei tempi juventini, sino alla causa in Tribunale ai tempi del Chelsea. Il suo ego e la sua ossessione per la vittoria, ad un certo punto, diventavano troppo pesanti ed invadenti per qualsiasi club.

Rangnick è l’opposto di Conte: lui ha l’ossessione di costruire, di riuscire a dare basi solide ad una squadra, a strutturarne le fondamenta, a lavorare sulla crescita dei giocatori e sulla loro potenzialità. Vuole arrivare alla vittoria tramite un percorso. Se possa far bene Rangnick in Italia è un tema vero, particolare, sul quale appare lecito concedersi il beneficio del dubbio. Bollarlo a prescindere non è invece corretto dal punto di vista concettuale. Il pregiudizio non dovrebbe mai aver la meglio sulla ragione. Stride tuttavia la differenza di trattamento mediatico che viene riservato ai due: nella serata di ieri Conte poteva essere tranquillamente criticato su scelte discutibili anche in maniera estremamente analitica.

In casa nerazzurra c’è infatti il tema di Skriniar e Godin che sono centrali da difesa a 4 e che vanno in grande difficoltà nelle uscite della difesa a 3, c’è l’equivoco Eriksen che per Conte non è una mezzala, c’è finanche il talebanismo di Conte sulla immutabilità del 3-5-2. Nonostante il risultato negativo, gli è stato invece concesso il proscenio soltanto per i suoi dubbi sulle strategie della società.  Per Rangnick tutto questo non esiste: nessuna ribalta mediatica (peraltro nemmeno voluta dal personaggio che risulta abbastanza schivo), ma marchio d’inadeguatezza già bello appiccicato sulla pelle. Quali sono le sue colpe? Non avere mai allenato in Italia, aver fatto bene sempre in realtà non metropolitane, essere un manager prima ancora che un allenatore. La differenza fra un dubbio ed una convinzione, d’altronde, risiede in una pillola minuscola di pregiudizio.

 

 

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