EUROPA LEAGUE, ITALIA ANCORA A SECCO...

Rien ne va “Mou”

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Per il Siviglia, è la settima Europa League. La terza ai rigori. Record dei record. Per la Roma, un grande viaggio e un grande sogno spezzati sul più bello
Redazione Derby Derby Derby

analisi Facebook di Roberto Beccantini -

Perdere così ti fa rimpiangere di non essere morto prima, magari nei quarti o giù di lì. Fa troppo male, un male che conosco, lasciarsi sfuggire una finale che non finiva mai, cominciata mercoledì e terminata giovedì, dopo 147 minuti di lotta dura, sporca e cattiva. Dopo «due giorni» di bolge e di crampi, di passioni e di pulsioni. Va, dunque, al Siviglia quella Europa League che la Roma e il suo stregone volevano abbinare alla Conference di un maggio fa. Prima che molti, da Matic a Fernando, crollassero esausti, i duellanti se le erano date di santa ragione, ciascuno seguendo il proprio stile, la propria indole. La Lupa, subito in sella alla gioia di Dybala, bel gol (su lancio flitrante di Mancini, uno che quando non fa il matto, è pure bravo, e non solo utile); poi vigile e compatta almeno per una quarantina di minuti. Il Siviglia è la classica zitella che ti trapana di palleggi, nella speranza che tu possa distrarti per poi fartelo pesare. Ma se non ti distrai, patisce.

Una partita selvaggia

Una partita non formidabile e, quindi, non memorabile. Ma per i popoli coinvolti, di un pathos che celebreranno e malediranno in eterno. Ha vinto, ai rigori, lo Josè meno nobile, José Luis Mendilibar. L’artigiano, non lo sciamano. Il palo di Rakitic, l’autorete di Mancini, e sparse qua e là le occasioni di Spinazzola (in avvio), Ibanez (in mischia), Belotti e, alla fine della fine, la traversa di Smalling, il Tarzan di Budapest, raccontano di un’ordalia a lungo indecisa se premiare il possesso barocco degli spagnoli o le vampate improvvise di avversari meno narcisi.

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Il serbatoio dell’Omarino aveva benzina per un’oretta. Si sapeva. Che delicati arpeggi, però. Il risultato, in compenso, è il mantello del diavolo che copre tutto, e fa sembrare persino patetico il richiamo all’onore e alla resilienza degli sconfitti. Come contro la Juventus, sono stati Suso e Lamela ad agitare gli andalusi, presi per mano da Rakitic e Fernando. Le squadre del Vate le conosciamo: alla tazzina di té sorbita con il mignolo all’insù prediligono il caffè che sbrodola ma tonifica, al diavolo i salamelecchi e le milonghe.

Se En-Nesyri, il centravanti pertica, è stato il peggiore, l’altro marocchino, Bonou, è stato il migliore. Già durante il rodeo, ma poi soprattutto al tie-break dei penalty. Del Siviglia, tutti a segno: Ocampos, Lamela, Rakitic e Montiel, quest’ultimo al secondo tentativo, dopo che il Var aveva colto Rui Patricio in divieto di anticipo. Della Roma, solo Cristante. Non Mancini, murato di piede, e nemmeno Ibanez (palo). Non ne aveva più, di specialisti, Mou. Dybala, Abraham, Pellegrini, Matic: tutti fuori, chi infortunato e chi stremato.

E’ probabile che il grande seduttore tolga il disturbo. Non regge più di due stagioni, ormai: soprattutto se i padroni non ne assecondano il guardaroba. Ha molto criticato l’arbitro, naturalmente. Il «povero» Taylor. Un rigore (su Ocampos) concesso e poi tolto su dritta del collega al video; un braccio di Fernando che i mani-comi europei, meno sensibili dei nostri, non hanno manco preso in considerazione. Più un fracco di gialli, alcuni pregnanti e altri vaganti. Gli avessero offerto un po’ di ristoro, allenatori e giocatori. Col cavolo: si aspettava caschi blu, ha trovato terroristi. E non è che Mou si sia tirato indietro.

Per l’Italia, l’ennesima porta in faccia. Non vinciamo sto’ benedetto trofeo, con il Parma, dal 1999. Si chiamava ancora Coppa Uefa. C’era ancora la lira e Ferenc Puskas non era ancora uno stadio.

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