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editoriali

Sergio Zavoli non dava voce al potere, dava potere alle voci

Sergio Zavoli e il ciclismo, un grande amore professionale

La scomparsa di Sergio Zavoli

Redazione DDD

analisi Facebook di Roberto Beccantini -

Sergio Zavoli ci ha lasciato a 96 anni. Per me, uno dei più grandi. Non dava voce al potere: dava potere, e volto, alla voce, alle voci. Uno dei pochi, a parer mio, ad aver scortato l’Italia del giornalismo - e l’Italia tout court - attraverso l’informazione e la formazione, strade che spesso, uomini di poca fede e troppe fedine, confondiamo. Scrittore, storico, «socialista di Dio»: avevo appena 11 anni e abitavo ancora a Bologna, non lontano dalla Rimini felliniana che lo avrebbe adottato, quando il «Processo alla tappa» mi condusse dentro il ciclismo e il Giro d’Italia. Ridurlo a quella trovata, per geniale che fosse, potrà sembrare fin troppo infantile, ma non riesco proprio a farne a meno. I corridori, i commentatori, quei moccoli sospesi fra sudore e ardore, castamente censurati e, sullo sfondo, un Paese bigotto che scalava il dopoguerra, una televisione minorenne che cercava di darsi un tono, non solo un volume.

«Non sarò stato un campione di intransigenza, disse, ma non ho granché di cui arrossire». Voltairiano, Zavoli considerava il dubbio «non piacevole» ma la certezza ridicola. E per questo scavava, esplorava, indagava. Se con il «Processo» aprì la curiosità dei tinelli ai panni sporchi di uno sport fachiresco, con «La notte della Repubblica» entrò dentro gli anni di piombo alla ricerca del «timer perduto». C’è un passo, nella lectio magistralis che tenne all'università Tor Vergata di Roma, che fissa lo spirito della missione scelta: «Come trasmettere il senso delle cose comunicate se, per garantirsi il consenso del pubblico, si è fatto largo il costume di privilegiare l'effimero e l'inusuale, il suggestivo e il violento strumentalizzando e banalizzando persino la sacralità della vita e della morte?». Ecco. Mi piaceva, di Zavoli, quel suo modo molto inglese, molto snob di trattare la vittoria e la sconfitta, «questi due impostori», allo stesso modo. Non cercava l’inchino. Cercava il confronto, lontano dal virus di ben altri «Processi».

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