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IMPARARE A SPENDERE...

Spesa uguale resa? Mica vero!

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Non vince chi spende di più ma chi sa spendere bene

Redazione DDD

di Max Bambara -

Per vincere bisogna spendere perché se non spendi non vinci. E se ti permetti di dire o di pensare qualcosa di diverso dal pensiero unico vieni, ovviamente, tacciato di essere un suddito. Eppure se apro i cassetti della memoria, mi rendo conto che le spese esagerate e le esaltazioni umorali, nella storia del Milan, quasi mai hanno portato frutti. Sia in positivo, sia in negativo. Mi viene subito in mente l’estate del 1997. Sono passati 25 anni, ma il ricordo è ancora vivo. Al Forum di Assago il Milan presentava la sua nuova squadra, costruita con acquisti importanti e dispendiosi. C’era Kluivert, c’era Bogarde, c’era Ibrahim Ba, c’era soprattutto Cristian Ziege, strappato a suon di milioni alla Juventus. Fabio Capello garantì a voce, a tutti i milanisti, che quella squadra era fortissima. Mai valutazione fu più sballata. In campionato quel Milan finì nella parte destra della classifica e la contestazione alla penultima giornata in casa contro il Parma rappresenta uno dei momenti più delicati dell’intera epopea berlusconiana. Nel gennaio del 2000 il Milan spese tanto perché prese un giocatore che, all’epoca, ebbe il proscenio sui giornali e sulle televisioni. Si chiamava José Mari e veniva dalla Spagna. Per lui garantiva nientedimeno che Arrigo Sacchi in persona. I tifosi rossoneri erano esaltati. Qualcuno scrisse che era il centravanti del futuro, che gli oltre 40 miliardi che il Milan stava scucendo per lui erano ben spesi. Qualcuno azzardò un “più forte di Sheva”. Sul campo però, Josè Mari non dimostrò mai di essere un grande giocatore. Utile a volte, per essere buoni, certamente non determinante. L’esaltazione dei tifosi si spense nel giro di poche partite. Dall’esaltazione del gennaio del 2000 si passò alla rivolta del giugno dello stesso anno. Farinos doveva andare al Milan ed invece finì all’Inter. Negli anni il ragazzo divenne più famoso per avere giocato in porta una partita di coppa, piuttosto che per le imprese sul campo. Eppure, la società che non spendeva per Farinos era, secondo le tesi ricorrenti, la dimostrazione che il Milan stava finendo. Oggi, a ripensarci, certi ricordi strappano un sorriso. Vi fu poi la sollevazione popolare dell’estate del 2001. Chi non è ragazzino oggi la ricorda certamente. Inzaghi al Milan era un affronto al milanismo. Gobbo, cascatore, scarso tecnicamente. E poi, soprattutto, il Milan faceva da vassallo alla Juve dandole i soldi per comprare Thuram. Il buon Pippo in rossonero ha scritto la storia. Su due coppe dei Campioni ci sono le sue mani e soprattutto i suoi gol. Nessuno ricorda più le vesti strappate per il suo acquisto; gli echi indignati erano talmente forti che, se abbassate l’audio, potete ancora sentirli. Risuonavano di sdegno. Quello stesso sdegno che riecheggiava una sera di metà agosto del 2002 quando l’Inter prese Fabio Cannavaro.

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Il tifoso rossonero non poteva sapere che tre settimane dopo sarebbe arrivato Nesta e per tutto il mese di agosto le spiagge italiane furono affollate di milanisti in preda a vere e proprie convulsioni da lamento. Qualche anno dopo, nell’estate del 2009, ci furono i nasini all’in su per la scelta di Gourcuff di non tornare al Milan e di rimanere in Francia. La tifoseria rossonera, già scottata dall’addio di Kakà, aveva visto nel talentino bretone un possibile erede del fuoriclasse brasiliano e il suo non ritorno al Milan fu visto come un segnale di resa definitivo della società rossonera. Gli anni a venire hanno dimostrato invece che i 15 milioni di euro incassati dal Milan per Gourcuff sono stati il picco massimo della carriera del ragazzo che, forse per limiti temperamentali, non è mai riuscito a esprimere pienamente il proprio talento. L’estate del 2015 invece rimarrà scolpita nella storia per i drammi nascenti da un carneade di nome Kondogbia, quello che veniva presentato, all’epoca, come il nuovo Pogba. Doveva andare al Milan, finì invece all’Inter dopo un duello rusticano nella notte monegasca. Sembrava la fine del mondo, con la delusione che lasciava il posto alla rassegnazione nella testa dei tifosi del Milan. Il campo dimostrò che quelli che avrebbero dovuto disperarsi erano i tifosi dell’altra sponda di Milano perché il francese aveva in comune con Pogba soltanto il passaporto francese. L’estate del 2017 poi è stata l’emblema del fallimento della teoria della spesa. Il Milan sembrava Paperone fra i poveri. Passava il tempo a prendere giocatori ed a presentarli con uno stile molto gradito dai tifosi, ma poco in linea con lo stile del club. Quell’azzardo finì male, come un treno in corsa senza freno a mano che poteva schiantarsi contro un muro se non fosse intervenuto il fondo Elliott. Già proprio quei cattivoni degli americani che finora hanno speso oltre 200 milioni in campagne acquisti ma che, secondo la vulgata non spendono un euro perché non hanno interesse. Come se il brand del Milan non avesse bisogno anche di vittorie.... Forse bisognerebbe dire che hanno imparato a spendere bene, ma farlo notare attira troppe sentenze inappellabili di servilismo. Ai teorici della spesa a tutti i costi andrebbe semplicemente fatta notare una verità storica incontrovertibile. I due giocatori iconici del Milan del trentennio berlusconiano sono stati Van Basten e Kakà. Il centravanti olandese arrivò al Milan per meno di due miliardi, nell’estate in cui la Juventus prendeva Rush per 7 miliardi. Il fantasista brasiliano invece arrivò al Milan per 8 milioni di euro, stessa cifra con la quale la Juventus, quell’estate, si portò a casa Legrottaglie. La storia del Milan ci suggerisce pertanto che non vince chi spende di più, ma chi sa spendere bene, con le idee giuste, nell’alveo di un progetto sportivo chiaro e coerente. Esattamente quello che il Milan di oggi dimostra di avere da due anni e che nessun Vlahovic o nessun Gosens potranno mai mettere in discussione.

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