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TARCISIO BURGNICH E QUEL GOL...

DDD Story – “La Roccia” senza pace per ila magia di Pelé: “Sono stato un pollo…”

DDD Story – “La Roccia” senza pace per ila magia di Pelé: “Sono stato un pollo…”

Ha perso la marcatura di Pelé, ma in tanti hanno cercato di consolarlo...

Redazione DDD

di Luigi Furini -

Ha preso 9+ in pagella, forse il voto più alto mai assegnato a un calciatore. Glielo ha dato Gianni Brera al termine di Italia-Germania 4-3, semifinale dei campionati mondiali di calcio in Messico 1970. In finale ci tocca il Brasile e dopo venti minuti Pelé porta in vantaggio i verdeoro. “Sono stato un pollo, ho fatto il movimento sbagliato”, è il suo commento. Tarcisio Burgnich, classe 1939 (morto nel maggio 2021), terzino dell’Inter e della nazionale, per 50 anni si è addormentato con quel pensiero fisso. Ha perso la marcatura di Pelé e “O rei” gli aveva fatto gol, colpendo di testa e mettendo la palla alle spalle di Albertosi. In tanti hanno cercato di consolarlo. “Guarda che avremmo perso lo stesso, e l’Italia, dopo la partita e i supplementari con la Germania (lui ha segnato anche il gol del 2-2) era davvero a pezzi davanti al Brasile”. Burgnich questo lo avvertiva, vincere sarebbe stato impossibile. “Però quel gol….”.

Il Ct Valcareggi gli dava da marcare sempre il più forte. E quel giorno, su Pelé ci doveva andare Bertini. Poi, però, Edson Arantes Do Nascimento, forse il giocatore più forte di sempre, si era messo stabilmente nella nostra area. E allora era toccato a lui. Arriva un cross dalla sinistra, Burgnich lo battezza in mezzo all’area e invece la palla arriva più lunga. Lui salta ma non ci arriva. Però diciamolo, Pelé è stato in aria mezzora. E Burgnich, pur bravissimo, si è solo comportato da uomo, non poteva fare di più. Poi, è il destino dei difensori, finiscono sui giornali quando gli avversari segnano un gol. E gira ancora sul web un gol di Enzo Pascutti, in un Bologna-Inter 3-2, del dicembre 1966. Insomma, per passare alla storia, chi gioca in difesa deve fare più fatica. Burgnich è già una “Roccia” quando arriva in azzurro. L’ha battezzato così Armando Picchi. Si gioca Spal-Inter. Un attaccante spallino finisce contro Burgnich e cade a terra. “Oh – gli dice Picchi – non provarci più che ti fai male, quello è una Roccia”.

Aveva cominciato nell’Udinese (50 mila lire al mese di stipendio), insieme a Dino Zoff e Boniperti l’aveva subito voluto alla Juve (è l’estate 1960). I bianconeri vincono lo scudetto. Dopo un anno, però, il medico si accorge di un leggero strabismo e prevede per lui una “carriera incerta”. Così la Juve lo vende al Palermo (neopromosso in A). Lui non ci vuole andare (è in servizio di leva a Roma) ma poi si convince e proprio a Torino con un suo gol, i siciliani si impongono sui bianconeri e li sorpassano in classifica. E’ la svolta. Interviene l‘Inter che, con 100 milioni, porta in ragazzo a Milano (nel frattempo è promosso caporale e trasferito a Bologna). Lì ci sono Herrera, Picchi e il suo amico di sempre, Giacinto Facchetti. “Eravamo in camera insieme, si parlava molto poco”, dirà lui. Nel 1974 passa al Napoli, allenato da Luis Vinicio, e sfiora lo scudetto. Gioca in Nazionale dal 1963 al ’74. Poi gira per anni l’Italia sulle panchine di tante squadre. Quando smette diventa osservatore dell’Inter e si stabilisce a Como. Un giorno, dopo un nubifragio, con le strade interrotte, si vede un uomo farsi largo fra la folla, prendere un albero e spostarlo con la forza delle braccia. Lo riconoscono, è lui, la Roccia. Uno che aveva quasi fermato Pelé.

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