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IL GRANDE TORINO SENZA SE E SENZA MA

DDD Story – Remember Superga

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Oggi come sempre: onore e gloria ai caduti di Superga

Redazione DDD

analisi Facebook di Roberto Beccantini -

Scrivere del Grande Torino a ogni rintocco di Superga (oggi, 4 maggio 2022, sono già 73 anni) può sembrare un atto dovuto, più che voluto. E invece no. Quella squadra continua ad appartenere a tutti: anche a coloro che hanno scelto colori più comodi. Di Valentino e la sua Camelot ho saputo leggendo le analisi di Gianni Brera, Giorgio Tosatti, Giuseppe Pistilli; e ascoltando le testimonianze di Giampiero Boniperti, i ricordi di papà e di Ferruccio Cavallero, giornalista de «La Stampa», il cui padre, Luigi, perì nello schianto (e con lui, Renato, il padre di Giorgio, e Renato Casalbore, fondatore di «Tuttosport»). Ferruccio mi riversava le memorie di famiglia, l’affetto e il rispetto, profondi, per giocatori che avevano segnato un’epoca, e chissà come sarebbe andata se non fosse successo quello che, di terribile, successe. Ma c’è un dettaglio - una piccola, resistibilissima pagliuzza - che mescola il mito alla routine e, più di qualsiasi elzeviro, rende onore e giustizia all’enormità di quel Torino. Non sono gli scudetti in bacheca, né i record in archivio e neppure i dieci giocatori che vestirono l’Italia contro l’Ungheria l’11 maggio 1947 (e vinsero per 3-2). Unico intruso, Sentimenti IV detto Cochi. Il portiere juventino che tirava e parava i rigori.

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Il fatto, perché di fatto si tratta, è che la formazione che ci siamo tramandati e gli anziani delle tribù del tifo continuano a recitare a memoria, la filastrocca che fa «Bacigalupo; Ballarin, Maroso; Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola»; quella formazione lì, che aveva trasformato il «Filadelfia» in una fortezza e la cornetta di Oreste Bolmida, capostazione a Porta Susa, nella musica del destino; ecco, quegli undici lì giocarono insieme, nell’arco di cinque anni, gli anni del dominio, una sola partita di campionato. Fu a Trieste, il 10 aprile 1949, a meno di un mese da quel fatale e bastardo 4 maggio: Triestina-Torino 1-1. Il tabellino ci rammenta che a scolpire il risultato contribuirono i rigori di Romeo Menti, per i granata, e di Ivano Blason per gli alabardati, come si diceva ai tempi degli stemmi e non ancora dei marchi.

L’ho letto, questo dato, sul dizionario enciclopedico del Grande Torino, «FVCG», «Forza Vecchio Cuore Granata», redatto da Flavio Pieranni e Luca Turolla, «Bradipolibri» editore. Come sia stato possibile trasformare un atto unico in un riassunto che ha cavalcato i secoli e la tragedia, diventando il vocabolario di un Paese intero e non di una semplice fazione, è difficile da spiegare se non con la forza della suggestione e del mistero che sempre accompagnano la morte improvvisa degli eroi. Né un derby, né una classica con Inter e Milan: il caso scelse Trieste, città simbolo di un Paese ferito e sospeso, provincia che produceva buon calcio. Nessuno, nemmeno Umberto Saba, poteva però immaginare i motivi per i quali quella recita sarebbe diventata speciale. Nel celeberrimo 10-0 inflitto all’Alessandria, il 2 maggio 1948, tanto per rendere l’idea, mancavano Virgilio Maroso e Menti, sostituiti da Sauro Tomà e Josef Fabian. C’era una volta, dunque: «una» e basta. Quella. Le gesta e il passa-parola hanno contribuito a saldare tronconi di formazioni, a incollare pezzi di reparti, per arrivare alla sintesi di una squadra che, come cantò Giovanni Arpino, era «Russ cume el sang/fort cum el Barbera».

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