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Fuochi e bandiere: le coreografie più belle di Celtic e Rangers

coreografie Celtic Rangers
Le coreografie dei tifosi di Celtic e Rangers sono ben più di semplici spettacolari manifestazioni: esprimono l'anima di due club legati da una rivalità che va oltre il calcio, raccontando storie di passione, orgoglio e memoria
Silvia Cannas Simontacchi

Non è solo una partita. L’Old Firm è una linea di confine. Il derby tra Celtic e Rangers è il più antico e disputato al mondo, ma non è il numero di incontri a renderlo unico: è la storia. O meglio, le storie. Di religione, politica, identità, classe. Cattolici contro protestanti, repubblicani contro unionisti, poveri contro borghesi. A Glasgow, la neutralità non esiste, e le coreografie lo dimostrano.

Celtic-Rangers, la rivalità in città

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La rivalità che attraversa la città affonda le radici ben prima del calcio, in un’Europa spaccata dalla Riforma. Quando nel 1872 nascono i Rangers, ispirati al rugby e ben radicati nell’identità protestante e britannica, e nel 1887 viene fondato il Celtic da Fratello Walfrid, un frate cattolico deciso a sostenere la comunità irlandese più povera, il campo diventa terreno di battaglia. La prima sfida ufficiale si gioca nel 1888 e finisce 5-2 per i biancoverdi. Ma era solo l’inizio.

La partita nella partita si gioca sugli spalti. E lì, nessuna regola scritta vale davvero. Se i tifosi del Rangers intonano con orgoglio “God Save The Queen”, quelli del Celtic alzano le sciarpe al cielo e fanno tremare il Celtic Park con il loro personale “You’ll Never Walk Alone”. Non è folklore: è conflitto aperto. Più che sfottò, volano minacce, insulti, a volte persino pugni. Le coreografie non sono solo spettacolo: sono atti di identità. Dichiarazioni religiose e politiche in forma visiva. Dai quadrifogli del Celtic alle Union Jack dei Rangers, ogni derby è un nuovo capitolo di un conflitto che non finisce mai.

Le coreografie dei Rangers: orgoglio, ordine e Union Jack

Fuochi e bandiere: le coreografie più belle di Celtic e Rangers- immagine 2
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Copland Road Stand e Broomloan Rear: da lì si alzano le voci e i colori dei tifosi dei Rangers. Una tifoseria nota per la disciplina visiva, l’effetto scenico compatto, la forza simbolica delle sue coreografie. Qui non c’è l’anarchia creativa delle curve continentali: tutto è rigoroso, marziale, riflesso di un’identità protestante, britannica, lealista. Durante l’Old Firm, ogni gesto acquista un peso ulteriore, e non è raro vedere richiami alla Battaglia del Boyne o a Guglielmo d’Orange. Ogni bandiera a Ibrox ha un significato preciso, ogni colore una posizione politica, ogni striscione è una memoria lunga secoli.

Il 14 settembre 2022, in Champions League, Glasgow ospita il Napoli. Elisabetta II è scomparsa da pochi giorni. I tifosi le dedicano una delle coreografie più solenni mai viste in Scozia: il suo volto domina una gigantesca Union Jack che occupa l’intera gradinata. Dopo il minuto di silenzio, lo stadio intona compatto “God Save The Queen”. A Varsavia, intanto, il Celtic affronta lo Shakhtar su campo neutro. Per evitare fischi, il minuto non viene osservato. Ma nel settore ospiti compaiono due striscioni, come una risposta a distanza: “FUCK THE QUEEN” e “Sorry for your loss Michael Fagan”, riferimento ironico all’uomo che nel 1982 era riuscito a introdursi di nascosto nella stanza da letto della sovrana.

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Settembre 2023, un’altra coreografia memorabile: su tutta la gradinata, si srotola un disegno dei cancelli di Ibrox, con un bambino sulle spalle del padre che li guarda, e una scritta perentoria come un testamento: “All my children shall be like me”. Un messaggio generazionale, reso possibile da un innovativo sistema di carrucole, il primo a Glasgow e il più grande del Regno Unito.

Ma il cuore identitario dei Rangers esplode nel 2016, l’anno del ritorno in Premiership dopo l’incubo della retrocessione. L’intera curva si tinge di blu e rosso, formando la croce di San Giorgio. Al centro, un solo grido: “We are the People”. È il giorno della redenzione.

Power to People: la curva del Celtic

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Dall’altra parte di Glasgow, tutto cambia. Se Ibrox è disciplina, Celtic Park è disobbedienza. Se i Rangers sono l’ordine, il Celtic è la rabbia degli esclusi. Il cuore pulsante del tifo biancoverde batte nella curva nord, dove si accende la Green Brigade. Un gruppo giovane, ma capace in pochi anni di ridefinire l’identità visiva e politica della tifoseria. Lo stile è quello degli Ultras europei: tamburi, bandieroni, cori ininterrotti, pirotecnica, coreografie a tema, messaggi chiari, a volte chiarissimi. Soprattutto, si tifa in piedi sempre e comunque. Anche se non si potrebbe farlo.

La Green Brigade è figlia della diaspora irlandese. Nei volti dipinti di verde, nei pugni chiusi alzati, nelle bandiere del Sinn Féin e nei canti in gaelico si legge tutta la storia dei cattolici irlandesi emigrati nella Scozia protestante e industriale del XIX secolo. Poveri, affamati, emarginati: a loro si rivolge Fratello Walfrid quando fonda il club, con l’idea di unire sport e beneficenza. E ancora oggi, quella vocazione si rinnova nel “political football” che i tifosi biancoverdi rivendicano con orgoglio.

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La curva del Celtic non celebra solo la propria squadra: celebra un’idea. Di giustizia sociale, di resistenza, di fratellanza internazionale. Per questo non sorprende trovare, tra una coreografia e l’altra, riferimenti a Bobby Sands, al conflitto nordirlandese, a cause anticolonialiste in Africa o in Palestina. Ogni partita può diventare un’occasione di mobilitazione.

Nel 2017, i Bhoys vincono il FIFA Fan Award con una delle coreografie più spettacolari mai viste nel Regno Unito: lo stadio interamente colorato di verde, una gigantesca Coppa dei Campioni che domina la curva, il numero “50” a ricordare l’anniversario, e la scritta “Lisbon Lions”in tribuna. È l’omaggio alla squadra del 1967 che conquistò la Coppa dei Campioni battendo l’Inter di Herrera: undici scozzesi, tutti nati nel raggio di cinquanta chilometri da Glasgow. Nessuna squadra britannica era mai arrivata così in alto. Ma il vero trionfo non fu solo sportivo — ma sociale. Fu il trionfo degli esclusi, dei proletari, di una città che aveva fame di riscatto.

Quella fame non si è mai spenta. Settembre 2023, vigilia dell’ennesimo Old Firm: la Green Brigade mette in scena un’altra coreografia d’impatto. Sullo sfondo lo skyline della città, al centro San Mungo — patrono di Glasgow — raffigurato come un’icona bizantina. Accanto, la scritta “Our Dear Green Place”, nome storico della città. Un modo simbolico per dire: questa è la nostra Glasgow, non quella dei rivali dall’altra parte del fiume.

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E poi ci sono le notti in cui i Bhoys decidono di alzare la voce, come nell'Ottobre 2023 in Champions League contro la Lazio: uno striscione a tutta curva recita “Antifascist Glasgow Celtic”, mentre dallo stadio si alza una versione corale e potente di Bella Ciao. Non è solo provocazione: è identità. Per una tifoseria nata tra i lavoratori, nella parte povera e ribelle della città, l’antifascismo non è una posa: è storia e orgoglio di classe.

Qualche settimana più tardi, trasferta a Dortmund. Il settore ospiti si accende con i fumogeni verde, bianco e rosso. E nonostante la sorveglianza tedesca, spuntano bandiere e magliette con la scritta “Free Palestine”. La Green Brigade espone anche vessilli libanesi, mentre alcuni tifosi vengono ripresi mentre si oppongono al tentativo della polizia tedesca di rimuovere le bandiere palestinesi, provocando momenti di tensione nel settore.

La Uefa aveva già più volte sanzionato il club per l’esposizione di simboli politici, ma ciò non ha fermato i tifosi dal ribadire il loro messaggio: stadio, fede, militanza. Il Celtic non è solo una squadra, è un’idea di mondo. E le gradinate sono il posto dove quella visione prende forma. In piedi, sempre. Anche quando tutti gli altri si siedono.