Palermo, 24 marzo 2022. Una partita che doveva essere poco più di una formalità per l’Italia, fresca campionessa d’Europa, si trasforma in un incubo a occhi aperti: la Macedonia del Nord, 67ª nel ranking FIFA, segna al 92’ con un tiro da fuori area e manda a casa gli Azzurri. Fuori dal Mondiale. Di nuovo.
La storia
Macedonia del Nord: breve storia calcistica di un Paese che non voleva sparire

Per gli italiani è una disfatta. Per i macedoni, l’apice di un cammino cominciato trent’anni prima, quando la loro nazione era appena nata e nemmeno poteva usare il proprio nome. Perché dietro quel gol di Trajkovski c’è una storia che parla di identità negate e confini riscritti. È il riscatto di un Paese piccolo, spesso dimenticato, che ha trovato nel calcio un modo per farsi sentire.
L’esperimento Jugoslavia

Per capire meglio questa storia, bisogna tornare a quel complicato esperimento chiamato Jugoslavia. Fondata nel 1945 come Repubblica Federativa Socialista, era un mosaico di sei repubbliche: Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia, Montenegro e, appunto, Macedonia. A tenerle insieme, almeno sulla carta, era l’ideale di fratellanza tra i popoli slavi del sud. Nella realtà, fu il carisma del maresciallo Tito, che guidò il Paese fino alla sua morte nel 1980.
La Macedonia, con capitale Skopje, non era particolarmente ricca o influente. Ma per la prima volta otteneva un riconoscimento ufficiale della propria identità nazionale e linguistica, dopo secoli di contese tra imperi: ottomano, bulgaro, serbo e greco. Fino ad allora, quella nazione era stata più un’idea che una realtà definita.
Con la fine della Guerra Fredda e la caduta del muro di Berlino, la Jugoslavia iniziò a sgretolarsi. Dopo Slovenia e Croazia, anche la Macedonia dichiarò l’indipendenza, nel settembre 1991. Fu una secessione pacifica, quasi invisibile, offuscata dai conflitti esplosi nei Balcani occidentali. Ma la neonata Repubblica non aveva un esercito, non era riconosciuta da tutti e si portava dietro un karma pesante: il suo nome, "Macedonia", avrebbe portato a una lunga battaglia diplomatica con la Grecia, e a una crisi identitaria lunga una generazione.
La Macedonia: una nazione senza nome

Indipendente, ma senza nome. È così che la Macedonia si presenta al mondo nel 1991. Atene le si oppone fin da subito: "Macedonia" è anche una regione del nord della Grecia, culla di Alessandro Magno. Riconoscere un altro Stato con lo stesso nome, per i greci, è semplicemente inaccettabile.
Il braccio di ferro si sposta presto sul piano internazionale. Il giovane Stato entra alle Nazioni Unite solo nel 1993, con un’etichetta provvisoria che sa di compromesso: Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, o FYROM. Una sigla che suona più da archivio burocratico che da nazione. Per anni, sarà questo il nome ufficiale sui documenti, sui tabelloni delle partite, nei sorteggi UEFA e nelle telecronache.
Ma non è solo un problema di forma: Il veto greco blocca il riconoscimento diplomatico, congela i negoziati per l’ingresso nell’UE e nella NATO, isola un Paese già fragile. Sul fronte interno, la situazione non è più semplice: crescono le tensioni tra la maggioranza slavo-macedone e la forte minoranza albanese, fino agli scontri armati del 2001.
Finalmente, nel 2018 si arriva a un accordo storico: l’Accordo di Prespa. La Macedonia accetta di diventare Repubblica della Macedonia del Nord, la Grecia ritira il veto, e si riaprono le porte dell’integrazione euro-atlantica. Il nome cambia, la sostanza no: un Paese piccolo ma testardo, che ha dovuto lottare perfino per vedersi stampato correttamente il nome sulla maglia della Nazionale.
Il calcio per esistere agli occhi del mondo

Con un nome finalmente riconosciuto e un’identità ancora in divenire, anche il calcio diventa un modo per esistere agli occhi del mondo. La Nazionale macedone nasce nel 1993, in un contesto tutt’altro che facile: stadi semi vuoti, campi rattoppati, pochi soldi, ancor meno esperienza internazionale.
Eppure, è proprio attraverso il pallone che la Macedonia del Nord comincia a raccontarsi. A differenza di altri Paesi ex jugoslavi – come Croazia o Serbia – non ha un campionato competitivo né una diaspora calcistica forte. Ma ha una cosa: la fame. La voglia di esserci. Di non scomparire tra le pieghe della Storia.
Il debutto arriva il 13 ottobre 1993, con una sconfitta per 4-1 contro la Slovenia. Ma poche settimane dopo arriva la rivincita: 4-1 a Skopje. È l’inizio di una lunga risalita. I primi nomi — Gjorgji Hristov, Artim Šakiri — restano solo nella memoria dei tifosi più fedeli. Ma sono i pionieri, quelli che pongono le basi.
Negli anni Duemila, i risultati faticano ad arrivare. La Macedonia del Nord arranca nei gironi di qualificazione, spesso fanalino di coda. Ma qualcosa cambia, lentamente: grazie alla diaspora, ai legami culturali coi vicini, all’onda lunga dell’integrazione europea. Sempre più giovani cresciuti all’estero scelgono la maglia rosso-gialla.
La svolta ha un volto: Goran Pandev. Stella in Serie A, uomo del Triplete con l’Inter, diventa anche il simbolo della Nazionale. E nel 2020, con lui in campo, la Macedonia del Nord conquista per la prima volta la qualificazione a un grande torneo: Euro 2020 (giocato nel 2021).
Tre sconfitte nel girone, è vero. Ma anche un gol, emozioni, orgoglio. E soprattutto: presenza. Per un Paese che ha dovuto lottare perfino per il suo riconoscimento, esserci è già una vittoria.
La notte di Palermo

Il 24 marzo 2022, a Palermo, la Macedonia del Nord entra di prepotenza nella storia del calcio europeo. Di fronte ha l’Italia campione d’Europa in carica, che sogna i Mondiali in Qatar dopo aver saltato quelli del 2018. I macedoni, invece, non hanno nulla da perdere. Nessuno li considera davvero pericolosi. Nessuno, tranne loro stessi.
La partita è un assedio azzurro. L’Italia tira venti volte in porta, ma non segna. Al 92esimo, succede l’impensabile: Aleksandar Trajkovski, ex Palermo, riceve palla fuori area e fa partire un destro che si infila nell’angolino. È 0-1. L’Italia è fuori dal Mondiale, di nuovo. La Macedonia del Nord, incredibilmente, no.
È un’impresa che scuote l’Europa. Non solo per l’eliminazione clamorosa degli azzurri, ma perché consacra una piccola squadra con i nervi saldi e una fame smisurata. Il calcio, ancora una volta, diventa politico: la Macedonia del Nord non vince solo una partita, ma conquista l’attenzione e il rispetto di tutti.
Per un Paese abituato a stare nell’ombra delle grandi potenze, battere l’Italia a casa sua è più di una vittoria sportiva. È un’affermazione d’identità.
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