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GIGI MERONI VIVE ANCORA

Quel genio di Gigi Meroni: la diocesi di Torino non voleva il funerale religioso del “rivoluzionario”

Le critiche morali e perbeniste a Gigi Meroni fanno capire tante cose dell'Italia della fine degli anni Sessanta

Redazione DDD

di Luigi Furini -

Girava con una Balilla rimessa a nuovo e camminava con una  gallina al guinzaglio, lo chiamavano “la farfalla granata”. Il suo nome? Luigi Meroni, detto Gigi, nato a Como nel 1943, giocatore del Torino, e non solo. E’ morto nell’ottobre 1967, investito da un’auto mentre a piedi andava verso casa. Era una domenica, il Toro aveva appena battuto la Sampdoria per 4-2 e, con i compagni di squadra, era andato a ristorante. I suoi miti? George Harrison, quello dei Beatles, perché gli somigliava. E George Best, quello del Manchester, perché portava i capelli lungi e i calzettoni arrotolati alle caviglie... La sua storia, seppur breve, ha meritato più di un libro. Perde il padre a soli 2 anni. La mamma, Rosa, lavora alla filanda e quando l’Inter vorrebbe portare a Milano il suo ragazzino, nel 1958, lei dice “no”. E’ ancora troppo piccolo. Nel 1962 lo prende il Genoa, poi nel 1964 il presidente del Torino, Pianelli, stacca un assegno da 300 milioni e lo porta in granata. In panchina c’è Nereo Rocco. Gigi Meroni appare sregolato in tutto, almeno per quei tempi. Porta lunghe basette, indossa abiti originali e, soprattutto, si innamora di Cristiana, una bella ragazza, nata in Polonia da padre tedesco e madre italiana, che gestisce il tiro a segno in un luna park della città. Ecco, ci mancava quella delle giostre, scrivono i giornali.

I due vorrebbero sposarsi, ma i genitori di lei si oppongono e la obbligano al matrimonio con un aspirante regista. Meroni è tristissimo, anche se in campo fa il suo. Il matrimonio di Cristiana dura due mesi, poi lei si rimette con il suo Gigi. E i giornali? Ancora peggio. Adesso gli viene appiccicata l’etichetta di “rivoluzionario”. Gli chiedono anche di tagliarsi capelli. Lui rifiuta. Lo difende il “Paron”, Rocco: “Meroni è come Sansone, se gli tagliano i capelli, non saprebbe più giocare”. Eppure i bigotti la spuntano ancora. Il Ct Edmondo Fabbri, lo convoca per i Mondiali ’66 in Inghilterra e, per vestire l’azzurro, Meroni è obbligato ad andare al barbiere. In Nazionale gioca sei partite e segna due gol. Nel Toro segna 5 gol il primo anno e 7 in secondo. Il gol più bello? A San Siro contro l’Inter: beffa in un colpo il suo difensore Facchetti e il portiere Sarti. Il Toro vince 2-1, dopo che i nerazzurri non perdevano in casa da tre anni. Lo vorrebbe la Juve, per 750 milioni, ma il presidente Pianelli deve arrendersi agli operai Fiat, tifosi granata, che mettono biglietti sotto i tergicristalli delle 500 in catena di montaggio. “Meroni è roba nostra”, scrivono.

Poi la terribile domenica. E’ il 15 ottobre 1967. Dopo la gara vittoriorsa i giocatori vanno a cena. Meroni torna verso casa con Fabrizio Poletti, altro giocatore e suo inseparabile amico. Attraversano la strada. C’è la nebbia, piove. Arriva una Fiat 124 che investe e uccide la “farfalla”. Alla guida c’è Attilio Romero, tifoso granata e di Meroni, che anni dopo diventerà presidente del Toro. La Diocesi di Torino si oppone ai funerali religiosi perché Meroni, che stava con Cristiana, era considerato un cattivo esempio. Così è don Fernando, cappellano del Torino, che se ne frega del vescovo e in chiesa a Como dà l’ultimo saluto al giocatore. In Italia sta per arrivare il ’68. Meroni, forse, vive ancora in chi crede nei sogni.

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