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Rio de Janeiro, 20 gennaio 1983. Il sole estivo scalda senza pietà le lamiere delle auto, degli autobus e dei tram paralizzati in 25 chilometri di coda. Ma il carnevale è ancora lontano, mancano tre settimane prima che i ballerini di samba rispolverino i loro lustrini e le piume colorate. Oggi si celebra un funerale. Un’autopompa dei vigili del fuoco, seguita da un serpentone infinito di brasiliani in festa, accompagna per l’ultima volta un piccolo uomo bruno, dal Maracanã fino a casa sua, a Pau Grande. “Qui riposa in pace colui che era la gioia del popolo: Mané Garrincha”.
Fuoriclasse del calcio mondiale e primo grande 7 nella storia – prima di George Best, di David Beckham e di Cristiano Ronaldo – Garrincha era tutto ciò che un calciatore professionista non dovrebbe essere. Nato con la poliomielite, una colonna vertebrale non allineata, le ginocchia storte e una gamba più corta dell’altra, i medici avevano subito avvertito Dona Maria Carolina che suo figlio non avrebbe mai camminato. E infatti, Mané avrebbe corso.
Ala destra, Stradivari del dribbling - spesso inutile, ma sempre spettacolare – giocare a pallone gli piaceva troppo, esattamente come le donne, il fumo e la cachaça. Garrincha, nella vita, non si risparmiava mai. E come tutti quelli che non si risparmiano, bruciò in fretta.
Nato il 28 ottobre 1933 in un sobborgo di Rio, al limitare dell’Amazzonia, Mané trascorre un’infanzia quasi selvaggia, fatta di tuffi nei torrenti e partite a piedi nudi nel fango. È piccolo, scuro e vivacissimo, tanto che a quattro anni la sorella maggiore inizia a chiamarlo Garrincha: il passero. Da quel momento, tutto il Brasile lo conoscerà così.
Il provino con il Botafogo arriva relativamente tardi: Mané ha già 19 anni e una lunga scia di terzini umiliati dietro di sé. Il Vasco da Gama non aveva nemmeno voluto vederlo, perché non aveva gli scarpini da calcio. Con il Fogão, invece, andò bene. “Dribbla troppo”, annotò sul suo taccuino uno degli allenatori bianconeri: sarebbe stato l’inizio di una lunga storia d'amore (1953–1965). Sotto l’Astro del Mattino, che sembrava proteggerlo dallo stemma cucito sopra il cuore, Garrincha esplode. Nella prima stagione segna 20 gol in 26 partite in campionato. Un record di marcature per il club, e il secondo posto nella classifica cannonieri: niente male, per uno che non era nemmeno una punta.
Mané giocava con la stessa gioia e la stessa furia di un bambino in cortile, facendo perdere la testa al suo allenatore, Zezé Moreira. Per correggerlo, gli mise davanti una sedia. Garrincha avrebbe dovuto semplicemente saltarla e crossare. Ma niente da fare: le girava intorno, faceva passare la palla sotto, la recuperava, faceva il tunnel come se fosse un avversario vero. Quando si era divertito a sufficienza, solo allora, crossava. E Moreira se ne fece una ragione.
Mentre l’angelo zoppo diventava un uomo, veniva apertamente esonerato da ogni vincolo tattico, lasciato libero di scorrazzare lungo la fascia destra con la sua andatura asimmetrica e imprevedibile, saltando gli uomini che avrebbero dovuto fermarlo e ridendo di loro. Con lui in campo, il Botafogo divenne la seconda squadra più amata del Brasile. Si dice che gli olè che si levano dagli spalti, quando ormai non c’è più partita, si debbano proprio a Garrincha.
Con la maglia alvinegra, il Chaplin del calcio collezionò 612 presenze e segnò ben 243 reti. Ma anche le cose più belle, a un certo punto, finiscono. E purtroppo questa non è una storia a lieto fine.
All’inizio degli anni ’60, il fisico di Mané cominciò a presentare il conto. Gli stravizi, l’abuso di alcol e la scandalosa relazione con la cantante Elza Soares finirono per incrinare i rapporti con il club, con i compagni, con il pubblico. Il passero aveva smesso di volare. Così, dopo un inconcludente corteggiamento da parte di Inter, Milan e Juventus, Garrincha – che ormai tirava avanti a colpi di cachaça, ostinazione e infiltrazioni alle ginocchia – nel 1966 venne ceduto al Corinthian. Il club paulista gli concesse l’ingaggio più ricco della rosa, a costo di guastare il clima dello spogliatoio.
Con il Timão visse un’annata difficile, piena di momenti bassi e anche qualche abbacinante alto: come quel gol con tiro a effetto contro il São Paulo, che contribuì alla vittoria per 2-0. Ma il rapporto con il Corinthians era stato travagliato fin dall’inizio. Gli infortuni erano sempre più frequenti, i diverbi con i compagni insanabili, e il suo temperamento sempre più ingestibile. In campo non c’era più posto per lui come titolare. Finì persino per essere citato dalla dirigenza come esempio di investimento sbagliato. Nel 1967 chiede la cessione. Il Corinthian lo girò al Vasco da Gama, ma lì trascorse più tempo a cercare di rimettersi in condizione che in campo. Era l’inizio degli anni bui. Il passero, sempre più appesantito nel corpo e nello spirito, veniva schierato quasi esclusivamente nelle amichevoli, per riempire lo stadio sfruttando il suo nome.
Dopo l’addio al calcio professionistico, nel dicembre 1972, la sua ultima apparizione avvenne in una partita di beneficenza, il giorno di Natale del 1982. Ma quello che era stato – l’eroe zoppo, la gioia del popolo – si era ormai perso nella depressione e sul fondo di una bottiglia di cachaça. Mané era nato in povertà e morì in povertà, nonostante i successi, la gloria e il lusso degli anni d’oro. Non aveva nemmeno i soldi per il suo funerale.
Eppure, non fu dimenticato. Fu Agnaldo Timoteo, cantante di bolero e tifoso del Botafogo, a finanziare il corteo funebre più spettacolare che la nazione verdeoro avesse mai visto. I brasiliani, notoriamente inclini alla nostalgia, accorsero in massa per salutarlo. Garrincia, che non aveva mai avuto il physique du rôle, né il senso della misura, a tutti loro aveva donato qualcosa di prezioso: la gioia.
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