Qualcosa che racconti chi si è davvero, dentro e fuori dallo stadio. È qui che nascono i soprannomi: segni distintivi che non si scelgono, ma si ereditano. Alcuni affondano le radici in leggende di quartiere, altri raccontano un passato industriale e operaio; altri ancora si ispirano a colori sociali, simboli araldici o piccoli dettagli diventati mito. È qui che comincia anche la storia di Atletico Madrid e Botafogo, Colchoneros e Fogão, due squadre lontane migliaia di chilometri, ma legate da un destino comune: quello di custodire il fuoco sacro del calcio popolare.
Calcio e cultura
Colchoneros vs Fogão: soprannomi e tradizioni di Atletico e Botafogo

RIO DE JANEIRO, BRASILE - 30 NOVEMBRE: Un tifoso del Botafogo celebra la vittoria della squadra con una fiammata nella finale della Copa CONMEBOL Libertadores 2024 contro l'Atletico Mineiro durante il Botafogo Fan Fest all'Estadio Olimpico Nilton Santos il 30 novembre 2024 a Rio de Janeiro, Brasile. (Foto di Wagner Meier/Getty Images)

Atletico Madrid: i Colchoneros, tra materassi e militanza

Madrid non è solo merengue e trofei lucidi. È anche ruggine, tute da lavoro e birra alla spina, consumata su gradoni assolati per dimenticare la fatica – almeno per novanta minuti. In questa parte della città, l’Atletico ha trovato la sua gente. E la sua identità.
Il soprannome “Colchoneros” nasce da una semplice associazione cromatica: le prime maglie dell’Atletico ricordavano i rivestimenti dei materassi spagnoli dell’epoca, a righe rosse e bianche. Ma quella che sembra una storiella di poco conto diventa presto marchio di fabbrica, simbolo di una tifoseria che ha fatto dell’autoironia e della resilienza il proprio tratto distintivo e più grande pregio.

Non sono solo i successi a unire le persone. Se il Real Madrid è l’aristocrazia, l’Atletico è l’insubordinazione. È il figlio operaio che non ha paura di sporcarsi. L’epopea colchonera è fatta di finali perse, vittorie epiche e sconfitte leggendarie, vissute tutte con lo stesso orgoglio testardo. Un club che ha trasformato il dolore in narrazione e che ha trovato in Diego Simeone il suo profeta: il Cholo è il Colchonero perfetto, con la mascella contratta e quella sua espressione sempre a metà tra la rivincita e la rissa.
Botafogo: il Fogão, tra fuoco, poesia e malinconia

Dall’altra parte dell’oceano, a Rio de Janeiro, c’è una squadra che prende fuoco a ogni tocco di palla. E non per modo di dire. Il Botafogo è soprannominato Fogão, cioè “grande fuoco”, un nomignolo affettuoso che ricorda il quartiere da cui tutto è cominciato: Botafogo, affacciato sulla baia, tra mare e malinconia.
Il fuoco, oltre che nel nome, scorre anche nella storia del club: è Garrincha che dribbla come se ballasse su un tetto che scotta, ingestibile, libero, anarchico. È Nilton Santos che inventa la difesa moderna. È quella stella solitaria sul petto che brilla come un faro per i romantici del pallone.

Il Fogão è un club che ha conosciuto la gloria e il crepuscolo, senza mai rinnegare la propria anima. Se il Flamengo è folla, il Botafogo è verso poetico. Se il Vasco è sangue, il Fogão è un profumo che resta nell’aria. È la squadra che, anche nei momenti più bui, non perde il suo alone mitologico. È Lucifero che cade dal cielo come una cometa, splendente e tragico. E quando la tifoseria intona “Ninguém cala esse nosso amor”, non si può fare altro che crederci.
Atletico e Botafogo: due facce della stessa fiamma

Se è vero che un soprannome è una dichiarazione d’identità, allora Atlético Madrid e Botafogo raccontano due modi diversi, ma ugualmente intensi, di vivere il calcio. L’Atlético nasce nel 1903 per mano di un gruppo di studenti baschi, come succursale madrilena dell’Athletic Club di Bilbao. Ma con il tempo diventa qualcosa di più: un simbolo della capitale spagnola. Lo stemma, con l’orso e il corbezzolo, richiama il cuore di Madrid, ma la sua vera casa è a sud, nei quartieri popolari, lontano dagli sfarzi del Bernabéu e dalle geometrie impeccabili del Real.
Il vecchio Vicente Calderón, incastrato tra case basse, bar e il traffico del Manzanares, non era solo uno stadio: era una parte viva della città. Le partite dei colchoneros erano riti collettivi. Se il calcio d’inizio era alle 21:00, i tifosi si davano appuntamento nei bar alle 17:00, birra in mano, tra cori, racconti e presagi di battaglia. Solo all’ultimo si entrava allo stadio, come a voler prolungare il rito, l’attesa, il brivido.
Era normale vedere nella tribuna Fondo Norte una nonna e un nipote con lo stesso tatuaggio: lo stemma del club. Perché tifare Atlético non è una scelta, è un modo di essere: testardo, orgoglioso, a tratti masochista. Anche ora che lo stadio è diventato il moderno Wanda Metropolitano, il cuore è rimasto lo stesso. E se oggi il tifoso più celebre è il re di Spagna, Filippo VI, poco importa.

Dall’altra parte dell’Atlantico, a Rio de Janeiro, il 12 agosto 1904, durante una lezione di algebra, nasce il Botafogo Football Club. Un atto fondativo tanto improbabile quanto poetico. A suggerire il nome è Dona Chiquitota, la nonna di Flávio Ramos, uno dei fondatori, ispirandosi alla più antica società di canottaggio della città: il Club de Regatas Botafogo. È un incontro fortuito tra pallone e remo, sabbia e mare, che dà vita a qualcosa di straordinario.
I colori sociali sono il bianco e il nero, il simbolo una stella solitaria – Estrela Solitária – è il pianeta Venere, il primo astro a comparire nel cielo. Un dettaglio poetico che diventa subito leggenda. Perché il Botafogo, come l’Atlético, non è solo una squadra: è uno stato d’animo.
A Rio la concorrenza è spietata – Flamengo, Fluminense, Vasco da Gama – ma il Botafogo conserva un’aura particolare, impalpabile. Il Clássico Vovô contro il Fluminense è il derby più antico della città, il “derby dei nonni”, e profuma di memoria, di bar all’angolo, di panchine e radioline.
🎙️ Las palabras de Simeone en la previa del Atleti-Botafogo. pic.twitter.com/w5PGxPlDhO
— Atlético de Madrid (@Atleti) June 23, 2025
E se il tifoso sceglie la squadra che gli somiglia, il Botafogo ha avuto il privilegio – o il destino – di somigliare al suo campione più grande. Non Pelé, simbolo della perfezione. Ma Garrincha: l’imperfezione fatta arte. Mané, il passero zoppo, beveva troppo, fumava sempre, ignorava ogni schema tattico. L’uomo che ha trasformato la fascia destra in un paradiso terrestre. Nessuno incarna il Botafogo meglio di lui. Vedendo il Fogão battere i campioni glamour del PSG, si sarebbe fatto una risata delle sue. Non importa quanti trofei sollevino gli altri: Atlético e Botafogo restano lì, ostinate e imperfette. Per fortuna.
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