NATO LO STESSO GIORNO DI MOURINHO

Ciao Enzo, l’inventore della Supercoppa

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Un Fuoriclasse del giornalismo italiano. Enzo D'Orsi è tra le firme di maggior prestigio che molti hanno incontrato lungo la loro strada
Redazione Derby Derby Derby

analisi Facebook di Roberto Beccantini -

Il problema, Enzo, il problema adesso che ci hai lasciato, è che vorrei ricordarti come meriti e non banalmente come sono capace. Ho davanti a me, in ufficio, uno dei tuoi libri, «Gli undici giorni del Trap, Atene 1983» (e non è che l’altro, «Michel et Zibì, gli amici geniali» sia molto più lontano). Ho dietro di me le tante stagioni che abbiamo attraversato insieme, su rive opposte, ma sempre lungo lo stesso fiume. Tu, umbro e «umbroso». Meno orso del sottoscritto, ma un po’ sì. Attento alle distanze, per fissare le quali non avevi bisogno di ideali bombolette spray; ma ancora più attento, con i giovani, nell’indicargli la strada, nell’insegnargli il mestiere. Marco Bonetto, Emanuele Gamba, Guido Boffo, Massimo Gramellini, che definisti un «genio» e invano consigliasti al direttore del «Corsport». Piazza Solferino, Torino: era lì il covo, la redazione, l’ufficio e l’officina.

Lo so, le apologie di beato ti hanno sempre annoiato, ma mica sei un beato, tu

Sei stato un compagno di viaggio che mi ha dato più di quanto gli abbia dato io. Uniti, questo sì, dalla passione per il giornalismo, per lo sport, per il calcio internazionale, inglese «first». Fosti tu - anche tu, soprattutto tu - a suggerire a Paolo Mantovani, presidente della Sampdoria più bella e più grande, d’importare la finale di Supercoppa sul modello della Community Shield, che allora si chiamava Charity Shield. La detentrice dello scudetto contro la vincitrice della coppa domestica: salpò nel 1989.

La memoria si fa «sbirra» e rincorre aneddoti in fuga. Parlavi di Kvaratskhelia quando ancora non lo citava nemmeno Sky. Ci si telefonava spesso, e su Whatsapp non c’era giorno che non mi salvassi da un dubbio. E poi il varo del premio intitolato a Piero Dardanello. Fosti tu, in una Mondovì brancolante nel buio, a fare il mio nome. Insieme, ne tracciammo i confini, e i fini. Era il 2004. Vent’anni, fa. Eri scrupoloso. Ne capivi. Scrivevi chiaro. Colonna del «Corriere dello Sport-Stadio» di Giorgio Tosatti. Poteva darti torto la conclusione, mai l’analisi che non avevi interesse, per fragile o complicata che fosse, a sabotare.

Ti ho visto per l’ultima volta giovedì scorso, a casa tua, in quella Saluzzo per me ferma a Silvio Pellico e alle sue prigioni. Con me c’era Fabio. E con noi, naturalmente, Paola. La tua Paola, medico e crocerossina. Fino alla fine, tanto per usare uno slogan di largo spaccio, con un amore così forte e così tenero da tenerti lì, comunque, sofferente ma padrone delle cose, dei sapori, delle tracce, dalla maglia del Manchester United a un Almanacco che parlavano a te, parlavano «di» te. Lasci tre figli (Jacopo, firma de «La Stampa», Lodovico e Niccolò) che hai cresciuto nel culto della discrezione e della responsabilità, una nidiata di nipoti. Lasci Paola. E, a debita distanza, lasci noi. Avevi 71 anni, eri nato lo stesso giorno di José Mourinho, fiammifero di cento dispute. Stavi pensando a un libro che raccontasse la vicinanza di Pep Guardiola alla Juventus, nell’estate di Maurizio Sarri. E uno l’avevi dedicato al calcio poco champagne della Juventus di Gigi Maifredi.

Ti ricordo così, Enzo. Con la malinconia che divora il passato che fu e mastica il futuro che, per forza, sarà. Ma anche con l’orgoglio, il privilegio e la fortuna di averti conosciuto.

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