IL DOPO LONDRA...

Il senso dell’impresa

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Considerazioni sulla qualificazione del Milan ai quarti di finale della Champions League

Redazione DDD

di Max Bambara -

Dal 1995 ad oggi il Milan si è qualificato ai quarti di finale della Champions League, entrando così fra le prime otto squadre d’Europa, in sette occasioni. Cinque volte con Carlo Ancelotti (dal 2003 al 2007), una volta con Massimiliano Allegri (nel 2012) e adesso per la prima volta con Stefano Pioli. Quanto avvenuto mercoledì sera pertanto non può essere derubricato nell’ordinario, atteso che è avvenuto soltanto 7 volte negli ultimi 28 anni. Non c’era nulla di semplice nella gara di Londra, perché non vi è mai niente di scontato nella massima competizione europea per club. Anche il sorteggio non era stato certamente il migliore di tutti. Fra le squadre italiane, il Milan aveva senza dubbio avuto l’accoppiamento peggiore e, nonostante il piccolo vantaggio della gara di andata (finita 1-0 per la squadra rossonera), il Milan partiva nettamente sfavorito contro gli Spurs, squadra che proviene da un mondo diverso rispetto alla Serie A. In troppi adesso sembrano aver dimenticato che il Tottenham, soltanto 4 anni fa, ha giocato una finale di Champions League, perdendola senza demeritare contro il Liverpool. Non stiamo parlando quindi di una squadra inglese di basso livello, anche perché la Premier League in questo momento è una sorta di NBA rispetto agli altri campionati nazionali e battere una squadra di quel lignaggio non può che essere un’impresa che, come tale, va applaudita, valorizzata e celebrata.

COME SI COSTRUISCE UNA SQUADRA?

Non è un caso che il Milan si sia qualificato ai quarti di finale della Champions League nella stessa sera in cui il Paris Saint Germain è tornato mestamente a casa dopo gli ottavi di finale per la quinta volta nelle ultime sette stagioni (nonché per la seconda volta consecutiva). In questo bivio c’è un grande insegnamento. Le squadre non si costruiscono sommando i singoli e credendo che basti aggiungere giocatori, strapagandoli, per migliorare le proprie performance.

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Il calcio è uno sport particolare in cui le squadre vanno costruite con pazienza, lavorando su principi di gioco chiari e non rinunciando mai ad evolversi. La fidelizzazione dei giocatori ad un club, il senso del sacrificio e lo spirito di gruppo sono valori fondamentali, non sono negoziabili e non possono essere acquistati sul mercato. L’idea che, nella costruzione di una squadra importante, si possa derogare alle concezioni ed alle visioni di gioco perché tanto i soldi rimediano qualsiasi smagliatura, è un’idea decisamente malsana, nonché molto poco sportiva. Il calcio è uno sport collettivo che andrebbe giudicato sulla base di parametri collettivi. Per tale motivo il gioco non può essere relegato in secondo piano. Troppo spesso, invece, soprattutto in Italia, si tende a giudicare le squadre di calcio sulla base di parametri meramente individuali. Non è così e non era così nemmeno in passato. Il Milan del 2007 che vinse la sua ultima Champions League ad Atene è una squadra meno forte rispetto al Milan che perse la Champions League nel 2005 (erano andati via Stam, Rui Costa, Crespo e Shevchenko). Eppure vinse. A dimostrazione che il calcio è qualcosa di diverso rispetto a certe credenze “populiste”.

LA REALTA’ E IL CONTRASTO CON “LA CARTA”

In troppi fra i cosiddetti soloni illuminati avevano già pontificato sul Milan che, a loro dire, nel mese di gennaio aveva dimostrato il proprio reale valore di squadra. Dinanzi a certe opinioni, confezionate sulla carta friabile del pregiudizio, è possibile soltanto farsi una sonora risata. D’altronde pensare che una società possa essere giudicata per un mese negativo e non per tre anni positivi è una pretesa figlia della mentalità del calcio italiano, di un modo di pensare ormai vecchio e stantio, secondo il quale le rose delle squadre non si giudicano sulla base del rendimento sul campo, bensì sulla cosiddetta “carta”. I fatti però non si svolgono sulla carta, bensì sul campo di gioco ed i risultati ne sono una ovvia conseguenza. La crisi del Milan di gennaio è stata in realtà un momento di crescita per la squadra rossonera che ha dovuto fare i conti con la necessità non più derogabile di avere un piano B dal punto di vista tattico. Averlo trovato non è un demerito, bensì un segnale di forza e di pragmatismo che ha reso migliore sia il tecnico, sia i giocatori. Per evolvere, d’altronde, è necessario passare dalle forche caudine della sofferenza.

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