IL CICLO, LA FIDUCIA, GLI ERRORI

Le fasi degli allenatori

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Durata dei cicli e ragioni della loro fine, in generale. Poi il dibattito attorno a Stefano Pioli.
Redazione Derby Derby Derby

di Max Bambara -

Da qualche tempo sentiamo parlare di Stefano Pioli come un allenatore che è arrivato alla fine del suo ciclo al Milan. Per questa ragione il tecnico emiliano viene considerato tante volte colpevole dei risultati negativi della squadra. Ma davvero esistono dei cicli che si chiudono nel calcio?

Esiste innanzitutto un dato temporale che non può essere eludibile

I cicli degli allenatori nei club durano mediamente dai 2 ai 5 anni. Un biennio viene considerato il ciclo minimo. Il triennio viene considerato il ciclo classico. Il quadriennio viene considerato il ciclo della stabilità, mentre il quinquennio viene ritenuto, a torto o a ragione, il ciclo finale. Raramente gli allenatori vanno oltre. Le eccezioni si possono contare sulle dita di una mano. Wenger, Guardiola, Klopp, Ancelotti, Alex Ferguson. Personaggi straordinari che, in determinati ambienti, sono riusciti a creare le condizioni per rimanere oltre la durata naturale dei cicli degli allenatori. In Italia però soltanto Ancelotti ci è riuscito. Massimiliano Allegri, dopo 5 scudetti in 5 anni alla Juventus, arrivò ai saluti perché l’ambiente iniziava ad avvertirlo come un tappo alle ambizioni europee del club sabaudo. Fabio Capello, dopo 4 scudetti in 5 anni al Milan, preferì partire per l’agognata Madrid, salvo poi tornare a Milanello un anno dopo, compiendo quello che spesso, il Mister di Pieris, ha definito il più grande errore della sua carriera. I cicli finiscono quindi, non certamente per colpa degli allenatori, ma per una serie di situazioni e di circostanze che non sempre possono essere spiegabili.

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E qui veniamo all’altro elemento chiave. Perché il ciclo di un allenatore, dopo un certo numero di anni, finisce quasi naturalmente arrivando a consunzione? Le energie mentali che un tecnico tende a spendere nella propria professione sono tantissime. A volte il logoramento è impercettibile. Gli allenatori tendono a vederlo soltanto a distanza di tempo, magari osservando le cose con un occhio meno interessato. Arrigo Sacchi spiegò che nell’ultimo anno di Milan si era accorto che il tragitto che lo conduceva a Milanello iniziava a essere pesante. Un segnale dell’inconscio probabilmente. Ma c’è poi l’altro grande tema che riguarda il rapporto con i giocatori. Riuscire a motivare un gruppo dopo qualche anno non è semplice. Si creano abitudini, rapporti consolidati, magari persino pregiudizi inconsapevoli. Il gruppo continua a seguire l’allenatore ma, dopo qualche anno, l’attenzione inizia a diventare meno ferrea, la concentrazione durante gli allenamenti tende a svanire un po’, la sicurezza di qualche posizione predominante comincia a dar fastidio. In questi casi si dice che è necessario cambiare per non morire, perché l’allenatore ha dato tutto quello che poteva. I tecnici che chiudono rapporti pluriennali, spesso si sentono svuotati, incapaci di incidere ancora. Si portano dietro una serie di dubbi e pensano di essere stati giudicati con poca lucidità. Non è casuale che nell’ultima fase di un ciclo, un allenatore tenda a commettere più errori e, contemporaneamente, tenda a fidarsi troppo di certi giocatori. Spesso, questi due elementi sono strettamente connessi fra loro.

 

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