UNA STORIA CHE UNISCE

Per sempre, di tutti

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Oggi, da Venaria Reale, scatta il Giro d’Italia. Passerà per Superga, e non sarà solo un omaggio. Sarà tutto. Sarà tutti noi.
Redazione Derby Derby Derby

analisi Facebook di Roberto Beccantini -

Scrivere del Grande Torino il giorno di una ricorrenza così invasiva, i settantacinque anni di Superga, 4 maggio 1949-4 maggio 2024, può sembrare un atto dovuto, più che voluto. E invece no. Quella squadra continua ad appartenere a tutti: anche a coloro che hanno scelto colori diversi e/o più comodi. Di Valentino e la sua Camelot ho saputo leggendo le analisi di Gianni Brera, Giorgio Tosatti, Giuseppe Pistilli; e ascoltando le testimonianze di Giampiero Boniperti, i ricordi di papà e di Ferruccio Cavallero, giornalista de «La Stampa», il cui padre, Luigi, perì nello schianto (e con lui, Renato, il padre di Giorgio, e Renato Casalbore, fondatore di «Tuttosport»). Ferruccio mi riversava le memorie di famiglia, l’affetto e il rispetto, profondi, per giocatori che avevano segnato un’epoca, e chissà come sarebbe andata se non fosse successo quello che, di terribile, successe.

Ma c’è un dettaglio

Una piccola, resistibilissima pagliuzza, che mescola il mito alla routine e, più di qualsiasi elzeviro, rende onore e giustizia all’enormità di quel Torino. Non sono gli scudetti in bacheca, né i record in archivio e neppure i dieci giocatori che vestirono l’Italia contro l’Ungheria l’11 maggio 1947 (e vinsero per 3-2). Unico intruso, Sentimenti IV detto Cochi. Il portiere juventino che tirava e parava i rigori. Il fatto, perché di fatto si tratta, è che la formazione che ci siamo tramandati e gli anziani delle tribù del tifo continuano a recitare a memoria, la filastrocca che fa «Bacigalupo; Ballarin, Maroso; Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola»; quella formazione lì, che aveva trasformato il «Filadelfia» in una fortezza e la cornetta di Oreste Bolmida, capostazione a Porta Susa, nella musica del destino; ecco, quegli undici lì giocarono insieme, nell’arco di cinque anni, gli anni del dominio, una sola partita di campionato.

Fu a Trieste, il 10 aprile 1949, a meno di un mese da quel fatale e bastardo 4 maggio: Triestina-Torino 1-1. Il tabellino ci rammenta che a scolpire il risultato contribuirono i rigori di Romeo Menti, per i granata, e di Ivano Blason per gli alabardati, come si diceva ai tempi degli stemmi e non ancora dei marchi. L’ho letto, questo dato, sul dizionario enciclopedico del Grande Torino, «FVCG», «Forza Vecchio Cuore Granata», redatto da Flavio Pieranni e Luca Turolla, «Bradipolibri» editore. Come sia stato possibile trasformare un atto unico in un riassunto che ha cavalcato i secoli e la tragedia, diventando il vocabolario di un Paese intero e non di una semplice fazione, è difficile da spiegare se non con la forza della suggestione e del mistero che sempre accompagnano la morte improvvisa degli eroi. Né un derby, né una classica con Inter e Milan: il caso scelse Trieste, città simbolo di un Paese ferito e sospeso, provincia che produceva buon calcio. Nessuno, nemmeno Umberto Saba, poteva però immaginare i motivi per i quali quella recita sarebbe diventata speciale.

Nel celeberrimo 10-0 inflitto all’Alessandria, il 2 maggio 1948, tanto per rendere l’idea, mancavano Virgilio Maroso e Menti, sostituiti da Sauro Tomà e Josef Fabian. C’era una volta, dunque: «una» e basta. Quella. Le gesta e il passa-parola hanno contribuito a saldare tronconi di formazioni, a incollare pezzi di reparti, per arrivare alla sintesi di una squadra che, come cantò Giovanni Arpino, era «Russ cume el sang/fort cum el Barbera».

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