CHAPEAU, SOLO CHAPEAU

Tutti in piedi, Napule (tr)è

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I sociologi ci racconteranno il significato antropologico dell’impresa. Gli scrittori ci spiegheranno cosa significa per la pancia di Napoli un’anima capace di volare ad altezze così ardite.
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Redazione DDD Direttore responsabile 

analisi Facebook di Roberto Beccantini -

In alto i calici, come scriveva Gianni Brera, per il Napoli campione d’Italia con largo anticipo sulla cronaca (cinque giornate, addirittura) e bizzarro ritardo sulla storia (33 anni e cinque giorni). E’ il terzo scudetto, il primo della modernità; il primo, soprattutto, dopo Diego Armando Maradona. Inutile cercare di liberarsi da quei lacci, da quelle catene: a parte il fatto che nessuno vuole, Diego che incombe non sarà mai un peso, una barriera. Al contrario: un confine, un ponte. Una bilancia: per pesare chi eravamo «con» e cosa siamo diventati «senza». Dedico, al titolo del Napoli, il pronostico che scrissi il 12 agosto 2022, su «Eurosport», a mercato ancora aperto: quinto, dietro Inter, Milan, Roma e Juventus. Con questa motivazione: «Via Koulibaly, Fabian Ruiz, Insigne e Mertens. Dentro Kim, Olivera e Kvaratskhelia. Aspettando Simeone e Raspadori. Rimane competitiva, la rosa, anche se, sulla carta, un po’ meno. Spalletti è abituato a sopire e forgiare. De Laurentiis non è un mecenate alla Moratti, ma Napoli e Bari (da pattugliare) non sono pesi piuma».

Vedi Napoli e poi

E poi tante cose, troppe cose. Non so se ci abiterei (o ci avrei abitato, ormai), ma ogni volta che ci capitavo mi sentivo felice e spensierato prigioniero di un presepe così incasinato di marmitte e Capodimonti. Tanto, me ne sarei andato. Tanto, sarei tornato. Napoli. Il taxi di Armandino, i libri di Franco Esposito (ormai vicini al numero degli scudetti della Vecchia), la Costiera amalfitana che Romoletto Acampora mi «offrì» in cambio dei servizi mondiali che, nel 1986, gli avevo inviato dal Messico. Le sgommate di Antonio Corbo. Le notti alla «Sacrestia» conversando con le sigarette di Bruno Pesaola, dalle cui cicche spuntavano ciglia boscose e battute taglienti. Carletto Iuliano, l’addetto stampa che ci marcava stretto, e talvolta ci soffiava pure una notizia. Le processioni al San Paolo con Rosario Pastore, Francesco Rasulo e Mimmo Malfitano, riti laici di una religione che ci divideva senza che le moviole rigassero la stima (la mia, almeno).

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E, a livello più nobile, più colto, le baruffe che, nel Novecento, coinvolsero e opposero, sul piano tattico, la scuola napoletana di Antonio Ghirelli e Gino Palumbo alla scuola italianista (e padana) di Brera. Calcio d’attacco contro calcio di attesa e di difesa. Altro che i vaffa di Antonio Cassano alla «Bobo tv», o i tribunali sommari dei social: volavano schiaffi veri, a quei tempi, e ci si scannava in punta di concetti, di elzeviri. Ottavio Bianchi e Alberto Bigon appartenevano all’italianismo caro al Grande lombardo. Le loro avventure - tribolate perché gloriose, gloriose perché tribolate - sono state scolpite dal genio di Diego, senza il quale sarebbe stato impossibile arrampicarsi in cima ai sogni. Aurelio De Laurentiis è il presidente che ha portato il cinema nel calcio e il calcio nel cinema. E’ un mercenario, non un mecenate. Possiede il Napoli, che raccolse nel 2004 dalle macerie del fallimento, e, dal 2018, vi ha aggiunto il Bari. L’ala oltranzista lo chiamava «o’ pappone»: il podio non bastava, i mercati si fermavano sempre a un pelo dalla libido. Dalla serie C al paradiso: e adesso?

Allo scudetto, Napoli e il Napoli sono arrivati per gradi, grazie a un disegno «intellettuale», direi, come è facilmente riscontrabile dalla staffetta degli allenatori: Walter Mazzarri, con i primi ottavi di Champions, poi Rafa Benitez, Maurizio Sarri e il sarrismo da Treccani, Carletto Ancelotti, Rino Gattuso e, last but not least, Luciano Spalletti. L’abate di Certaldo («una carriera in autostop» parole sue), metà flusso metà russo. Quello che crollava sempre nei gironi di ritorno. Quello che all’Inter arrivava al massimo quarto. Quello che aveva amputato di brutto la carriera di Francesco Totti.

Veniva da un biennio sabbatico (anche qualcun altro, ma evidentemente...), e da un terzo posto che era sembrato, lì per lì, più una baionetta mozza che una spada sguainata in segno di sfida. Sarà stato pure un campionato opaco, condizionato dai balletti della giustizia sportiva, con la Juventus al muro e le plusvalenze nel mirino (persino Victor Osimhen); la concorrenza sarà stata fragile, o comunque non straripante (cinque semifinaliste in Europa, però). Tutto quello che vi pare. Ma vi raccomando: miglior attacco, miglior difesa, capocannoniere (Osimhen, e chi se no? 22 in totale, compreso il suggello in Friuli). Il Napoli di Spalletti ha divorato il calendario; ha inflitto distacchi bulgari, come se fosse una tornata elettorale e non un rodeo; ha bucato solo in Coppa Italia, con la Cremonese, e in Champions, per il «fuoco amico» del Milan.

Tre, dunque: 1987, 1990, 2023. L’ultimo esterno al triangolo Juventus-Milano-Roma risaliva al 1991, alla Sampdoria di Gianluca Vialli e Roberto Mancini. Nel quadro pittato da Edy Reja Spalletti, da agosto a maggio, da Verona a Udine, spicca la bellezza del gioco. L’ho già scritto e lo ripeto: mi piacerebbe che la squadra del mio cuore danzasse al ritmo di Stanislav «Robotka» e sulla cresta dell’onda del Totem africano, con i dribbling di Kvara-chi? a unire l’epopea della scapigliatura al doppiopetto serioso e seriale delle lavagne.

Scelto per scegliere, Cristiano Giuntoli non poteva scegliere meglio. Formazione facilmente riconoscibile - Meret; Di Lorenzo, Rrahmani, Kim, Mario Rui; Anguissa, Lobotka, Zielinski; Lozano (Politano), Osimhen, Kvaratskhelia. E dalla panchina, miniera preziosa, i gol del Cholito Simeone, del macedone Elif Elmas e di Giacomino Raspadori, bolognese di Bentivoglio, autore della rete che sancì la presa della Bastiglia sabauda. Come modulo, un 4-3-3 aggressivo, armonico e ormonico. Stile Liverpool etichetta 2019. Mi chiedessero uno slogan riassuntivo, direi: la partita la faccio io. Che è poi l’esperanto del calcio trans-nazionale, come ha dimostrato lo stesso Napoli, dal Liverpool all’Eintracht, sino alle folate di Rafael Leao.

Gli economisti ci rammenteranno che non è con i successi sportivi che si risana la malsanità o si batte la Camorra. Vi giro, in merito, il celeberrimo duetto fra il pastore sardo e l’inviato della Rai nell’aprile del 1970. Domanda: «Mi scusi, cosa le viene in tasca se il Cagliari vince lo scudetto?». Risposta: «Mi scusi, cosa mi verrebbe se non lo vincesse?». I tifosi si conteranno e si tireranno dietro il solito arsenale di petardi curvaioli, fra pizze, mandolini, Funiculì-funiculà, terroni e polentoni, scudetti a casa Cupiello e Giuliette zoccole.

Anche se sono di parte, non sempre giusta come tutte le parti, chapeau.

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