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Calcio e narcotraffico, in Colombia, sono due mondi che spesso si fondono, si intersecano, si contaminano. Negli anni '80 e '90 i grandi cartelli si interessarono al pallone, opzione ideale per riciclare soldi, pulire la propria immagine - un esempio da manuale di sportwashing - e far felici i tifosi. Gli stessi tifosi che, ogni giorno, rischiavano la vita semplicemente uscendo per strada a causa delle faide tra clan.
La Colombia degli ultimi decenni del '900 era esattamente quella che Chris Brancato, Carlo Bernard e Doug Miro descrivono in Narcos. Niente più dell'attività dei grandi cartelli del narcotraffico influenzava la vita di tutti i giorni dei cittadini colombiani. A dir la verità la Colombia non era esattamente un paese tranquillo già prima degli anni '80. Nel 1961 l'omicidio del leader del partito comunista di Tolima, uno dei trentadue dipartimenti, ebbe conseguenze devastanti. L'episodio diede il via a un devastante effetto domino: si creano diversi gruppi armati, il Farc il più importante, che puntavano a emulare quanto accaduto a Cuba con la rivoluzione di Fidel Castro.
Uno dei metodi principali con cui agivano questi gruppi era il terrorismo, oltre ai sequestri di persona. Insomma, la situazione era già parecchio tesa. A gettare benzina sul fuoco ci pensarono, come detto, i cartelli. Il più famoso è quello di Medellin, capeggiato da El Patron, Pablo Escobar. Escobar ha bisogno di poche presentazioni, è sostanzialmente uno dei criminali più conosciuti al mondo, sicuramente il più ricco. Nel suo momento di massimo "splendore" il cartello di Medellin incassava una cifra pari a 30 miliardi di dollari ogni anno. Stiamo parlando di una cifra spaventosa, che equivale al Pil di paesi come la Lettonia, l'Estonia o Cipro.
Poco più di 300 chilometri più a sud, i fratelli Rodriguez Orjuela comandavano il cartello di Calì. Sebbene quest'ultimo fosse meno ricco di quello di Medellin, le cifre si aggiravano comunque ben oltre i 5 miliardi di dollari l'anno. Anche Gilberto e Miguel, questi i nomi dei due fratelli, avevano bisogno di riciclare denaro, per evitare guai con il fisco. La scelta migliore? Investire sul calcio, gestendo in modo occulto la squadra locale, l'America di Calì. Escobar fece lo stesso, con l'Atletico Nacional. Anche José Rodriguez Gacha, alleato di Escobar, seguì l'esempio dei "colleghi", puntando sui Millionarios, di Bogotà.
Le conseguenze furono due: la prima è che il calcio cafeteros attraversò un periodo di splendore irreplicabile e irreplicato grazie ai soldi insanguinati dei boss. La seconda, meno immediata e decisamente più rilevante, è che il futbol colombiano diventò un ambiente che con lo sport non aveva nulla a che vedere. Corruzione, omicidi, violenza: il periodo più luccicante per le squadre della Colombia fu anche il più buio.
Escobar prese il controllo dell'Atletico Nacional nei primi anni '80, senza acquistare però il club, onde evitare ulteriori attenzioni sulle sue attività. Lo stesso fecero qualche tempo prima i fratelli Rodriguez con l'America de Calì. Nacque una delle rivalità più forti della storia del calcio colombiano, inevitabilmente legate a doppio filo alla tensione tra i boss. I due cartelli entrarono in guerra definitivamente tra il finire degli anni '80 e i primi anni '90, fino alla morte di Escobar nel 1993.
Il dominio delle squadre di proprietà del narcotraffico fu sostanzialmente incontrastato, con rarissime eccezioni. Furono poche le formazioni in grado di interrompere l'egemonia dei club di Escobar, Rodriguez e Gacha, compagini con un budget pressoché illimitato. Basti pensare che tra il 1979 e il 1995, periodo d'oro dei cartelli, tredici titoli su sedici andarono all'America, all'Atletico Nacional e ai Milionarios. Solo l'Atletico Junior vinse, in tre occasioni. Anche questo club godeva però di diversi finanziamenti illeciti.
I più attenti avranno notato che nel paragrafo precedente si parla di sedici titoli assegnati tra il '79 e il '95. Sarebbe, aritmeticamente, un errore. Sono diciassette infatti gli anni solari che intercorrono nel periodo. Il campionato 1989, però, non ebbe un vincitore. La causa è tragica. L'arbitro Alvaro Ortega fu designato per dirigere la classicissima tra America e Atletico National. La conduzione lasciò più di qualche dubbio a Escobar, che giunse a una conclusione brutale: Ortega, per il boss, aveva fatto perdere apposta la squadra di Medellin. Il giorno dopo uno dei sicari del Patron freddò con dieci proiettili il fischietto. La federazione e il governo sospesero il campionato definitivamente.
Nel 1994 un nuovo omicidio scosse il calcio colombiano. A morire fu un calciatore, Andrés Escobar. Autore dell'autogol che condannò la nazionale della Colombia all'eliminazione dal Mondiale americano, pochi giorni dopo venne ucciso a colpi di pistola in un parcheggio di Medellin. Inizialmente si parlò di un episodio di risentimento per l'errore commesso. In realtà Escobar era rimasto vittima di un losco giro di scommesse, in un mondo che senza fatica o esitazione mischiava sport e criminalità. Il suo errore era costato carissimo, nel senso letterale dell'espressione, a qualche pezzo grosso del narcotraffico, che così aveva deciso di farlo fuori: si scoprirà poi che i mandanti del crimine furono i fratelli Gallon Henao, potenti criminali.
Chiaramente i fondi messi sul piatto dai cartelli del narcotraffico erano sufficienti per competere anche con le big argentine e brasiliane. A più riprese le squadre colombiane arrivarono in fondo alla Copa Libertadores, con l'America de Calì che giunse per ben tre volte consecutive in finale, tra il 1985 e il 1987. In altre cinque occasioni, sempre in quel periodo, los Diablos Rojos si fermarono in semifinale. Una vera e proprio epoca d'oro, sebbene la squadra allenata da Gabriel Ochoa Uribe non riuscì mai a chiudere il cerchio.
Nel 1985 i rigori condannarono l'America, che nel 1986 invece cadde di fronte al River. Infine, nel 1987 fu il Penarol a conquistare il titolo di campioni del Sudamerica, con un gol a dieci secondi dalla fine. Chi invece riuscì a mettere le mani sulla Copa Libertadores è l'Atletico Nacional. Nel 1989 i Verdolagos eliminarono i Millionarios ai quarti di finale, prima di superare il Danubio in semifinale. Nell'atto conclusivo il Club Olimpia, squadra paraguaiana, resistette fino ai calci di rigore. Dal dischetto però i colombiani furono più freddi e grazie al gol di Leonel Alvarez poterono festeggiare la prima Copa Libertadores vinta da una squadra colombiana. Sopra il video della finale.
Chiaramente i grandi investimenti sulle squadre di club portarono la Colombia ad avere una nazionale di tutto rispetto, in grado di lottare per risultati importanti in Copa America e di tornare in Coppa del Mondo dopo 28 anni, a Italia '90. In Copa America invece arrivarono una serie di ottimi risultati a partire dal 1975, con un secondo posto. Tra il 1987 e il 1995 i Cafeteros disputarono quattro volte le semifinali, senza mai riuscire ad ottenere l'accesso all'atto conclusivo.
La squadra, allenata da Francisco Maturana, bandiera dell'Atletico Nacional, era forte in tutti i reparti. A partire dalla porta, affidata, fino al 1993, a René Higuita. Portiere di soli 172 centimetri, è uno dei personaggi cult del calcio dei primi anni '90. Celebre per la sua parata con il colpo dello scorpione, Higuita era in realtà molto forte tecnicamente, al punto che spesso batteva i calci piazzati. Non a caso, la sua carriera si chiuse con 41 gol all'attivo. Fuori dal campo Higuita, nativo di Medellin, frequentava brutti giri, al punto di essere arrestato per sette mesi nel 1993.
In difesa, sempre dall'Atletico Nacional, c'è il già citato Andrés Escobar. Soprannominato El Caballero per la sua eleganza e la sua solidità, spesso viene ricordato più per la sua tragica scomparsa che per il talento e le grandi doti tecniche. Non a caso, il Milan di Berlusconi lo aveva messo nel mirino per sostituire Franco Baresi, con l'affare prossimo alla conclusione proprio in quella maledetta estate del 1994. Anche Maturana aveva un'enorme considerazione di lui, considerandolo il futuro capitano dei Cafeteros.
A centrocampo la fascia di capitano è sul braccio del PibeValderrama. Inconfondibile in campo per i lunghi e biondi capelli ricci, è probabilmente il giocatore più forte della generazione d'oro della Colombia di quel periodo. Tecnicamente fortissimo, i ritmi leggermente più bassi del calcio sudamericano fanno risaltare ulteriormente le sue grandi intuizioni e la sua visione di gioco, mascherando invece il fatto che la sua velocità e la sua condizione fisica non fossero esattamente da top player.
Il compagno di reparto era Freddy Rincon, visto in Italia a metà anni '90 con la maglia del Napoli. Giocatore forte fisicamente, dotato di uno spiccato senso del gol, è ricordato soprattutto per un gol alla Germania Ovest, poi campione del mondo. In attacco invece c'era Tino Asprilla, a sua volta protagonista in Serie A con il Parma. Attaccante dallo stile esplosivo, era veloce, potente e forte tecnicamente. Tuttavia, spesso le sue intemperanze fuori dal campo lo limitarono. Nel 1995, per esempio, fu fermato con due pistole in auto, mentre nel 2008, dopo il ritiro, venne arrestato per aver sparato con una mitragliatrice verso la polizia colombiana.
Asprilla è il ritratto perfetto di quella nazionale colombiana e di quella Colombia: bellissima ma controversa, limitata dalla stessa mano che nutriva il sistema, decisamente malato. E se da una parte è grazie ai soldi del narcotraffico che il calcio tricolor spiccò il volo, dall'altra proprio quello stesso legame impedì ai cafeterosdi diventare una vera big, tra violenza, corruzione, minacce e crimini di ogni tipo.
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