Il confronto

Il Brasile dei fenomeni e quello di oggi: cosa resta della nazionale verdeoro

Brasile Fenomeni
Pentacampeões in crisi profonda: un solo titolo in 20 anni, eliminazioni premature e una squadra che non emoziona più. Il ricambio generazionale stenta e l’identità è smarrita. Ora, per ripartire, si affida all’italiano Carlo Ancelotti
Silvia Cannas Simontacchi
Silvia Cannas Simontacchi

Lo spot diceva già tutto. Un pallone, un aeroporto trasformato in campetto, Ronaldo che calcia sul palo, con quel lampo negli occhi: lo stesso che illumina ogni cortile, ogni spiaggia, ovunque ci sia un ragazzino con i pantaloncini troppo larghi e un sogno troppo grande. A fine anni Novanta, il Brasile non è solo una squadra di calcio. È uno stato mentale. Un’idea di felicità. Il futebol bailado che profuma di sabbia, capoeira e Total 90. Sono i campioni del mondo, certo. Ma soprattutto sono i più belli. I più attesi. I più visti. Tutti quelli che sono stati bambini negli anni ’90 hanno sognato, almeno una volta, di indossare la maglia verdeoro. Quella con più stelle di qualsiasi altra. Fino a che, chissà dove, il sogno si è perso.

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Il Brasile dei fenomeni

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All’inizio del nuovo Millennio, la Seleção è la squadra più forte del pianeta. Quando le maglie gialle si muovono in campo, sembrano ballare la samba: libere, imprevedibili, morbidamente passionali. Basta un tocco, una finta, un sorriso con l’apparecchio per capire che stiamo assistendo a qualcosa di irripetibile. Il Brasile dei Fenomeni.

Eppure, il viaggio era cominciato a scossoni. Dopo la batosta delle Notti Magiche — magiche per gli altri — e l’uscita agli ottavi del Mondiale 1990 sotto la guida di Sebastião Lazaroni, il Brasile aveva provato ad aggiustare la rotta con Paulo Roberto Falcão, strappando un secondo posto nella Copa América del 1991 in Cile. Poi era toccato a Carlos Alberto Parreira, fermato ai quarti nel 1993, ancora contro l’Argentina. La ginga dei tempi di Pelè sembrava lontana, ma quella era solo la quiete prima del carnevale.

Nel 1994, con Parreira ancora in panchina, il Brasile torna a vincere il Mondiale dopo ventiquattro anni. Una finale sofferta e torrida a Pasadena, di nuovo contro l’Italia, risolta ai rigori. In campo ci sono Dunga a comandare e la coppia Romário-Bebeto a incantare. In panchina siede un diciassettenne con i dentoni sporgenti e un talento indecente: Ronaldo Luís Nazário de Lima.

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Dopo il trionfo, Parreira passa il testimone a Mário Zagallo, vecchia gloria della Seleção. Con lui arrivano due trofei — Confederations Cup e Copa América 1997 — ma anche la cocente sconfitta nella finale del Mondiale 1998 contro la Francia. Un 3-0 pesante, reso ancora più amaro dal malore (o attacco di panico, secondo alcuni) che colpisce Ronaldo poche ore prima del fischio d’inizio. La sua presenza in campo, nonostante tutto, farà discutere per anni.

A sostituire Zagallo è Vanderlei Luxemburgo, che nel 1999 vince la Copa América battendo 3-0 l’Uruguay. Ma l’incantesimo si rompe troppo presto: la gestione successiva di Émerson Leão è un disastro. Eliminazione ai quarti della Copa América 2001 contro l’Honduras, quarto posto nella Confederations Cup dello stesso anno, con una squadra di riserve e con poche idee.

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Poi arriva Luiz Felipe Scolari. Con lui, il Brasile si qualifica al Mondiale 2002 con il fiatone. Ma in Corea e Giappone, tutto cambia. È il picco di un’epoca. Ronaldo si prende la sua rivincita, segna otto gol, compresa una doppietta nella finale contro la Germania. Accanto a lui ci sono Rivaldo e Ronaldinho, Cafu e Roberto Carlos sulle fasce, e in panchina un certo Kaká, allora ventenne. Cafu, da capitano, entra nella storia: è la sua terza finale mondiale consecutiva.

Ma non è solo questione di numeri. È il modo. Il modo in cui Ronaldinho inchioda Seaman con una parabola da cartone animato. In cui Rivaldo, elegantissimo, trasforma ogni pallone in meraviglia. Il modo in cui tutto sembra naturale, perfino divertente.

Quel Brasile è una squadra che ride giocando. Ma non per ingenuità: per consapevolezza. Cresciuti palleggiando a piedi nudi sull’asfalto, quei giocatori finiscono per vincere finali di Champions League come se nulla fosse. Con loro, il Joga Bonito non è uno slogan Nike: è realtà.

Parreira torna nel 2003 per un nuovo ciclo. Vince la Copa América 2004 e la Confederations Cup 2005, sempre contro l’Argentina — prima ai rigori, poi con un sonoro 4-1. Ma al Mondiale 2006, il sogno si infrange presto: ai quarti, contro i francesi di Zidane. Ancora loro. Dopo questa sconfitta, il Brasile si toglierà ancora qualche sfizio continentale, ma non sarà più lo stesso.

Il verdeoro di oggi: un mito che non esiste più

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Oggi, il confronto con quel Brasile è impietoso. La resa della Seleção negli ultimi anni è quella di una squadra modesta, reduce da una Copa América 2024 chiusa con tre pareggi (Costa Rica, Colombia e Uruguay), una sola vittoria contro il Paraguay e l’eliminazione ai quarti ai rigori contro l’Uruguay di Bielsa. Sono finiti i tempi dei campioni del mondo seriali: dal trionfo in Giappone e Corea nel 2002, il Brasile è uscito quattro volte su cinque ai quarti di finale dei Mondiali, centrando solo un quarto posto nel 2014.

Dal 2007, i verdeoro hanno vinto una sola Copa América (in casa, nel 2019), mentre per tre volte sono stati eliminati ai quarti (2011, 2015, 2024), una volta addirittura al primo turno (2016), e hanno perso una finale casalinga (2021). Proprio quella sconfitta contro l’Argentina ha rimescolato le carte, peggiorando una situazione già critica. Dopo Tite, in panchina è iniziata l’era degli ad interim: prima Menezes, poi Diniz, poi ancora Dorival.

Il nome scelto per voltare davvero pagina è stato uno di quelli grossi: Carlo Ancelotti. E già il solo fatto che la patria del calcio abbia pensato di affidarsi a un allenatore straniero dice molto sulle proporzioni della crisi. Fin qui, gara dopo gara, sconfitta dopo sconfitta, il Brasile ha iniziato lentamente a sgretolarsi. E con lui, l’idea stessa di “nazionale di calcio per eccellenza”.

I pentacampioni, capaci di vincere cinque Mondiali su dodici tra il 1958 e il 2002, non ci sono più. I veri fuoriclasse si contano sulle dita di una mano. E sono proprio loro a sembrare più smarriti di tutti. Il problema, oggi, non è tanto qualificarsi al Mondiale — quello succederà comunque — ma salvare la reputazione di una squadra che non è, e non fa, abbastanza. O almeno non abbastanza rispetto a ciò a cui aveva abituato il mondo intero. Per ben figurare nell’estate 2026 servirà ben altro.

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Mentre l’Argentina vince, il Brasile ha messo insieme un solo trofeo in vent’anni: forse per la prima volta nella storia, i verdeoro guardano agli albicelesti con un pizzico d’invidia. Ma più delle vittorie, ciò che manca a questa generazione è l’identità. Il senso di squadra. L’emozione. Persino un po’ di divertimento per chi guarda. Una colpa ben più grande che non vincere.

Ronaldinho è stato brutale: “Non guardo più le partite del Brasile. Manca tutto. Spirito, gioia, dedizione. Questa è una delle peggiori nazionali che abbia mai visto”. E in effetti, tolto il trio Raphinha-Vinicius-Rodrygo, questa è una delle Seleção meno ispirate della storia recente — sia per rendimento che per valore assoluto. Tralasciando il ricambio tra i portieri, in difesa, dietro a Marquinhos e Éder Militão, il vuoto. Sulle fasce si continua a convocare profili come Danilo e Alex Sandro. E purtroppo Wesley o Vanderson non possono far dimenticare Dani Alves e Marcelo.

A centrocampo si affida tutto alla coppia della Premier League, Casemiro (fedelissimo di Re Carlo) e Bruno Guimarães, con il buon Ederson dell’Atalanta e André dei Wolves a completare. Troppo poco. In attacco, Antony proverà a confermare quanto di buono fatto con il Betis negli ultimi 6 mesi. E mentre Estevão ed Endrick sono ancora acerbi, Neymar è stato scongelato e poi accantonato. Il titolare è Cunha in staffetta con Richarlison. E questo dice molto.

Non è solo una crisi di una generazione. È una crisi strutturale, profonda. Un vuoto tecnico, identitario, emotivo. Serve ripartire. E questa volta, paradossalmente, il futuro del Brasile è nelle mani di un italiano.