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La tragedia post Ferguson: ecco le tappe principali della discesa dell’impero United

Federico Grimaldi
Federico Grimaldi
I Red Devils, da 12 anni a questa parte, sono ancora alla ricerca della propria identità: da Moyes a Ten Hag, ecco tutti gli allenatori che hanno contribuito alla fase calante
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Dal trono alla polvere, dal mito alla confusione. Il Manchester United, un tempo impero incontrastato d’Inghilterra sotto la guida di Sir Alex Ferguson, ha vissuto una lenta ma inesorabile discesa dopo il suo addio nel 2013. Quello che era un modello di stabilità, ambizione e trionfi si è trasformato in un labirinto di scelte sbagliate, allenatori bruciati, milioni spesi senza una direzione chiara e identità smarrita. Da Moyes a Ten Hag, da Di Maria a Sancho, passando per faide interne, fallimenti europei e un tifo sempre più disilluso: ecco le tappe principali della caduta di uno dei club più grandi - e oggi più confusi - della storia del calcio moderno.

L’addio di Sir Alex: il giorno in cui tutto è cambiato

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L’8 maggio 2013 non è solo la data dell’addio di Sir Alex Ferguson: è il giorno in cui il Manchester United ha smesso di essere il Manchester United che il mondo conosceva. Dopo 26 anni di trionfi, dominio e leadership assoluta, Ferguson ha lasciato un vuoto enorme, non solo in panchina ma nell’intero ecosistema del club. La sua figura non era solo quella di un allenatore: era un’istituzione, un manager capace di controllare ogni aspetto, dal mercato allo spogliatoio, dalla comunicazione alla visione a lungo termine.

Con la sua uscita di scena, si è interrotto anche il senso di continuità e di identità che aveva reso l’United uno dei club più vincenti della storia. Invece di preparare la transizione con strategia e pazienza, la società ha scelto di affidarsi al “prescelto” David Moyes, indicato dallo stesso Ferguson come suo successore. Una decisione dettata più dalla fiducia personale che da un progetto tecnico solido. E da lì, la discesa è iniziata.

Da Moyes a Mourinho: promesse mancate e identità perduta

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Dopo l’addio di Ferguson, la panchina del Manchester United è diventata terreno instabile, pieno di aspettative irrealistiche e pressioni insostenibili. Il primo a raccogliere la pesante eredità fu David Moyes, scelto proprio da Sir Alex, ma bruciato in meno di una stagione. L’idea di continuità si scontrò con la realtà: risultati deludenti, niente Champions, e uno spogliatoio mai davvero conquistato.

Dopo il breve interregno di Ryan Giggs, si puntò su un nome di peso: Louis van Gaal. Il tecnico olandese portò ordine e una visione tattica precisa, ma anche un calcio spesso sterile e lento. Non bastò la vittoria della FA Cup nel 2016 a salvargli la panchina: il progetto venne giudicato incompiuto.

Poi arrivò José Mourinho, l’uomo dei trofei, l’anti-Guardiola, la figura forte che sembrava poter ricostruire l’impero. All’inizio funzionò: vinse l’Europa League, la Coppa di Lega e una Community Shield. Ma sotto la superficie il malessere cresceva. Polemiche, tensioni con i senatori, un gioco mai amato e un’atmosfera sempre più tossica. La sua terza stagione finì nel caos. Tre allenatori, tre visioni diverse, un solo filo conduttore: il Manchester United continuava a cercarsi, ma senza mai davvero ritrovarsi.

Da Solskjær ad Amorim: tra nostalgia, illusioni e l’ennesima rivoluzione

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Dopo il caos lasciato da Mourinho, il Manchester United si rifugiò nel cuore. E scelse Ole Gunnar Solskjær, il volto amico, l’eroe di una notte a Barcellona che sembrava poter riportare luce nei corridoi di Old Trafford. L’inizio fu travolgente, pieno di entusiasmo e di una leggerezza ritrovata. Ma alla lunga, la magia si sgonfiò: il romanticismo non bastò a coprire le fragilità tattiche e le lacune strutturali. L’illusione si spense lentamente, fino all’esonero nel 2021.

Poi venne il tempo degli esperimenti. Michael Carrick traghettatore, Ralf Rangnick teorico del gegenpressing diventato figura decorativa. Il Manchester United sembrava ormai incapace di scegliere, o peggio, di credere nelle proprie scelte.

Nel 2022 arrivò Erik ten Hag, con la promessa di serietà, disciplina e costruzione. La prima stagione riportò un trofeo – la Carabao Cup – e un barlume di ottimismo. Ma nella seconda, tutto si è inceppato: infortuni, tensioni interne, caos dirigenziale e un gioco troppo fragile per reggere le ambizioni di un club che non può accontentarsi.

Ora, all’orizzonte, il nome che rimbalza è quello di Rúben Amorim, giovane tecnico profeta di un calcio moderno, aggressivo, e soprattutto identitario. Un’altra rivoluzione? Forse. Ma la sensazione è che, ancora una volta, il Manchester United stia cercando una guida più che un allenatore. Un senso più che un modulo.