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Nessuno è più ossessionato dalla Champions League di Pep Guardiola. Solo un anno non ha presenziato alla competizione europea da tecnico: era la stagione 2007-2008, la prima da allenatore del catalano alla guida del Barça B. 17 partecipazioni, 4 finali disputate e 3 trofei vinti. Guadagnato ormai un posto nel gotha del calcio d'elite occidentale, l'attuale tecnico del city non ha certo intenzione di fermarsi, anzi. Con lo sguardo sempre rivolto alle 5 coppe di Carlo Ancelotti.
La Storia, con la s maiuscola, è uno dei temi centrali della filosofia moderna e contemporanea. In Italia un certo discorso è stato reso centrale da Benedetto Croce. Rielaborando il pensiero del filosofo tedesco Hegel, l'intellettuale italiano infatti parla di uno storicismo assoluto. In questa categoria filosofica la storia ha un peso specifico: non esiste nessuna realtà fuori da essa ed è il luogo dove si incarna lo Spirito. Per Pep Guardiola la Champions League diviene storia e quindi unica realtà possibili in cui stare. La sua ossessione nasce proprio da questo problema dello starci dentro. Il catalano è sempre concentrato sul presente, ogni attimo della sua carriera è modellato e rimodellato sulle nuove categorie innovate e reinventate.
Ernesto De Martino, antropologo italiano, durante la sua vita si è allontanato progressivamente dalla corrente crociana, dove si è formato. Allo stesso modo Guardiola ha saputo capire cosa riprendere e cosa rielaborare delle teorie del maestro Johan Cruijff. Entrambi teorizzano la fragilità di esserci e di presenziare in questa grande Storia. Stare nel mondo è estremamente difficile e i due lo sanno bene: si fa strada l'idea di una costante crisi di presenza. Questa complessità si rende evidente con la morte, da cui è necessario proteggersi attraverso rituali.
Guardiola soffre molto queste crisi, il rischio di non esserci più lo angoscia esistenzialmente. Pep non è un allenatore familiare col pensiero magico, per cui lui si pone dinanzi a queste situazioni come uno scienziato razionale: il risultato è un sempiterno overthinking. Quando il tecnico viene messo di fronte all'oblio produce un cambiamento radicale che spesso conduce a confusione, come citato da Thomas Müller in una vecchia intervista. Proprio con i bavaresi si sono visti i risultati più estremi di questa problematicità: lo 0-4 rimediato nella semifinale del 2014 contro il Real Madrid ne è l'esempio più lampante. Fra un pressing disorganizzato, i lanci lunghi per la punta Mandzukic e la fragilità del centrocampo a 2 (Schweinsteiger e Kroos) in risposta alle transizioni madridiste, la squadra di Pep diventa irriconoscibile.
Per De Martino c'è uno spazio di resistenza a queste continue angosce storiche. I rituali, i miti e il loro corredo simbolico-valoriale sono ciò che mantiene l'individuo ancorato al divenire storico. Guardiola con lo stile del tiqi taqa ha cercato di replicare una sorta di rito: la ripetitività ciclica dei passaggi e dei movimenti posizionali, l'ordine razionale e preciso di queste pratiche calcistiche e la capacità di trasformare lo status o l'identità individuale o della squadra.
Quel Barcellona vincerà due Champions League (2008-2009 e 2010-2011), facendo della rinnovata identità collettiva l'antidoto alla crisi della presenza. Lo status dei calciatori cambierà per sempre, tra essi c'è addirittura chi passerà allo livello del divino: Lionel Messi. Guardiola nella sua profonda razionalità apre e cuce uno spazio del sacro, i blaugrana sono infermabili e indomabili. Ma queste vittorie e questi momenti sono illusori e fragili, dietro questi passaggi e queste triangolazioni si nasconde la crisi esistenziale e perenne: il ciclo storico del Barcellona si chiuderà con la sconfitta contro il Chelsea di Di Matteo, squadra in cerca della propria presenza.
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