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L’universitario Bernardini, il contabile Rosetta e l’oriundo Orsi: così andavano le cose a giugno negli anni ’20 e ’30

Il centro sportivo giallorosso intitolato a Fulvio Bernardini

Giugno, il mese del mercato. Ma nel secolo scorso accadevano le cose più inaudite...

Redazione DDD

di Luigi Furini -

Si giochi o no per lo scudetto, giugno è il mese del mercato. Le società guardano al prossimo anno, i calciatori cercano contratti più ricchi. E’ sempre stato così, dai tempi di Fulvio Bernardini, “Fuffo” per gli amici, il “dottore” per il mondo del calcio che, ancora oggi, non lo ha dimenticato. E’ l’estate del 1926. Bernardini è tesserato per la Lazio, ma viene pagato pochi spiccioli, sotto forma di rimborso spese. E che cosa fa l’Inter? Gli trova un posto in banca (606 lire al mese) e gli dà la possibilità di iscriversi alla Bocconi (di qui il titolo di dottore). Bernardini resta nerazzurro due anni. E’ lui che scopre Peppino Meazza, è lui che gioca al fianco di quel matto di Cevenini III, ovvero Zizì, grande talento ma incapace di rispettare qualunque regola (un giorno, annoiato dal gioco, chiese all’arbitro di fischiare anzitempo la fine dell’incontro).

Nel 1928 Bernardini viene ceduto alla Roma. Ci resta fino al 1939. Nel 1935 un episodio curioso. E’ il 2 gennaio. C’è folla in piazza Venezia e lui fatica a passare alla guida della sua Lancia Astura. Suona il clacson, tenta un sorpasso, urta un’altra auto. Qualche giorno dopo gli arriva a casa la polizia. L’auto che aveva tamponato era quella di Mussolini, che stava andando alla stazione Termini. Risultato? A Bernardini viene tolta la patente. Si mette in mezzo Monzeglio (suo compagno nella Roma) e amico di Bruno e Vittorio, figli del Duce. Si arriva a questo compromesso: Bernardini (buono anche con la racchetta) sfiderà il capo del governo (e lo lascerà vincere) in un incontro di tennis. Pace fatta e patente restituita. Finito di giocare, il “dottore” si siede per anni in panchina e vince due scudetti, con Bologna e Fiorentina.

Ma anche la Juve è capace di “rubare” i giocatori. Infatti  strappa il terzino Virginio Rosetta alla Pro Vercelli. Siamo nel 1923: paga 50 mila lire (che vanno al presidente della società) e offre al giocatore un contratto da contabile. La Pro non ci sta e ricorre. Così che la Federcalcio, nel campionato successivo, dà partita persa alla Juve nelle tre gare in cui viene schierato Rosetta (che poi starà fermo per il resto della stagione). Nel 1928 ancora la Juve va a prendere Raimundo Orsi in Argentina. E’ un’ala sinistra veloce e capace nel dribbling. Il tira e molla va avanti a lungo. La famiglia Agnelli lo vuole e paga 100 mila lire all’Independiente e 8 mila lire al mese al giocatore (ovvero venti volte lo stipendio di un maestro elementare, che prende 400 lire). Per Orsi anche una Fiat 509 con autista e una villa in collina. Ma gli stranieri non possono essere schierati, c’è l’autarchia e non si può neanche importare caffè, figuriamoci un calciatore. Però Orsi è forte, troppo forte. E una soluzione bisogna trovarla. Così viene tesserato come “oriundo”, ovvero discendente da antenati italiani. Con la Juve vincerà quattro scudetti e in Nazionale sarà protagonista della Coppa del mondo (allora Coppa Rimet) che l’Italia vince nel 1934.

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