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ESCLUSIVA – Delio Rossi: “Sono fuori dai giri, ma pronto. Baroni promosso, il Milan no. Ecco chi mi somiglia”

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L’ex tecnico si racconta a DDD: “Non ho un procuratore, ma ho ancora tanto da dare. Il Milan? Vedo improvvisazione. Su Italiano e Baroni...”
Nancy Gonzalez Ruiz
Nancy Gonzalez Ruiz

Allenatore navigato, autentico uomo di campo, Delio Rossi ha attraversato decenni di calcio italiano nel campo come nella vita: schietto, diretto, senza filtri. Dalla storica promozione in A con il Lecce alla Lazio di Champions, passando per esperienze intense con Palermo, Fiorentina, Bologna, Sampdoria e Foggia, Delio è sempre rimasto fedele al suo modo di vedere il calcio e la vita. Ce lo ha confermato in questa intervista esclusiva ai nostri microfoni.

Delio Rossi, le dichiarazioni in esclusiva

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Dopo tanti anni in panchina, com’è oggi la sua vita?

“Mi sto dedicando di più alla famiglia, cosa che in passato non riuscivo a fare. Chi fa il mio mestiere, almeno io, non riesce a staccare. Per oltre trent’anni ho fatto l’unica cosa che sapevo fare, e l’ho fatta ventiquattrore al giorno. Non sono mai stato uno di quelli che finiva l’allenamento e staccava la testa. La mia testa era sempre lì. Ora, momentaneamente, non sto allenando ma se capita l’occasione, lo farei volentieri.”

Qualche club l’ha cercata di recente?

“Più di uno, sia in Italia che all'estero...  Ma lì o ci vai per visibilità o per soldi. E se ci vai per i soldi devi essere onesto e dirlo. A me, in certi contesti, non sembrava il caso. Il problema è che io sono un po’… atipico. Forse il termine giusto è ‘rompipalle’, o forse ‘ambizioso’. Non mi lego alle categorie, mi lego alle situazioni. Ci sono club ai quali sono affezionato, indipendentemente dalla serie in cui giocano”.

C’è un club in particolare che, per progetto o proprietà, la stuzzicherebbe più di altri?

“Onestamente non credo molto nei progetti. Oggi nel calcio tutti parlano di progetto, ma nessuno ha davvero tempo per portarlo avanti. Il calcio è l’adesso. Si vive nel presente. Io poi ho un’indole particolare. Volevo fare il settore giovanile, inizialmente. Allenare i ragazzini. Pensavo sarei rimasto lì, poi la vita mi ha portato tra i grandi. Magari si chiuderà un cerchio e tornerò lì, a fare quello che ho sempre voluto fare: io mi sento più istruttore che allenatore, più maestro che coach”.

Da Pastore a Icardi, passando per Cavani, lei è stato tra i primi a lanciare giovani diventati poi campioni. In un calcio dove si chiede sempre tutto e subito, che ruolo deve avere un allenatore nella gestione di un giovane?

“Dipende da tante cose. Alcuni ragazzi nascono pronti, altri vanno aspettati… Il problema, soprattutto se sei in categorie medio-alte, è far capire al ragazzo — e alla proprietà — che c’è del talento, ma che magari non è ancora pronto. E che quindi bisogna aspettare 10-15 giorni, un mese in più perché una volta che lo metti dentro, non lo devi più togliere. E se lo togli, lo bruci. Vedo spesso società che preferiscono affidarsi a un giocatore esperto per paura. Io, invece, se uno è più bravo, gioca. Sempre. C’è anche l’altro rischio: metterlo dentro troppo presto, senza che abbia ancora la struttura mentale per reggere tutto quello che comporta stare tra i grandi. A me è capitato spesso di doverlo spiegare ai presidenti. Dicevo: ‘Se li metto, è perché sono più bravi, ma poi non li tolgo più.’ Così è stato con Pastore, con Hernandez. Zamparini voleva che li buttassi subito nella mischia, ma io gli dicevo: ‘Presidente, se li brucio adesso, poi non posso tornare indietro'”.

Guardando la Serie A oggi, molti club sembrano lavorare in quella direzione…

“Quando mi trovo a valutare un allenatore, non guardo tanto il nome, ma cerco di capire cosa trasmette alla squadra. Mi interessa vedere se c’è un’identità, se ci sono movimenti che si ripetono con coerenza, sia in fase di possesso che di non possesso. Quando vedo questo tipo di organizzazione, capisco che dietro c’è lavoro, c’è studio, ci sono idee. Se vado a vedere il Milan non vedo nulla, se prendo squadre come l’Atalanta o il Bologna, ad esempio, vedo una struttura, vedo una logica: vuol dire che l’allenatore ha inciso, ha formato un’identità. Secondo me esistono vari tipi di allenatori. Ci sono i ‘maestri’, quelli che insegnano e costruiscono un’idea di gioco – penso a figure come me, Zeman, Sarri, Sacchi. Poi ci sono gli allenatori ‘intermedi’, come possono essere Ancelotti o Allegri, che uniscono competenza tecnica a una grande capacità di gestione. Infine ci sono i ‘gestori’, più selezionatori che costruttori, come Zidane o altri profili simili, forse più adatti a una nazionale o a grandi squadre già formate”.

E oggi, tra gli allenatori in circolazione, c’è qualcuno in cui si rivede?

“Italiano. È uno dei pochi che ha fatto la gavetta vera: ha iniziato dalla Serie C, ha vinto la B, ha fatto bene a Spezia, poi la Fiorentina, ora Bologna. È uno che ha percorso la strada in salita, che si è costruito. Palladino invece viene da un altro percorso: era alla Primavera, gli hanno dato la prima squadra, ha fatto bene, ora allena la Fiorentina. Diversi modi di arrivare, ma entrambi sono allenatori che hanno delle idee. Thiago Motta, per esempio, ha sensibilità calcistica, perché ha vissuto lo spogliatoio da giocatore di alto livello, ma non ha capito che la Juve non ti dà il tempo che ti danno a Bologna. E quando non ti danno tempo, o sei subito efficace o ti trovi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Io sono convinto che l’esonero di un allenatore è sempre la sconfitta di chi l’ha scelto perché vuol dire che non hai saputo individuare l’uomo giusto. E poi, quando esoneri, devi pagare buonuscite, cambiare assetto… è un fallimento della strategia, non della persona. Motta non era l’uomo giusto per questa Juve, ma sono sicuro che lo vedremo in grandi squadre”.

In questo senso, che giudizio dà sulla gestione del Milan negli ultimi mesi?

“Mah, sembra che oggi, se non sei portoghese, non puoi allenare. Una cosa che non riesco a capire. Noi in Italia abbiamo una tradizione tattica che ci rende tra i migliori al mondo, però guardo il Milan e vedo una squadra con grandi calciatori, ma poco lavoro dietro. Parlo dell’aspetto tecnico, non della gestione dello spogliatoio. Vedo improvvisazione, non c’è una giocata che si ripete, che si riconosce. La verità? A parità di qualità, la differenza la fa la società. Come si spiega che se vai a Empoli gli allenatori rendono tutti, mentre a Roma fanno tutti male… Un motivo ci sarà. Se vai a Bologna e funzionano tutti, se vai all’Atalanta e trovi continuità, è perché la società è strutturata. E una società strutturata sceglie persone giuste, dà loro una strategia e li mette in condizione di seguirla. Noi siamo dipendenti, non padroni: il lavoro non è portare avanti l'ego o le proprie convinzioni, ma raggiungere gli obiettivi che sono stati assegnati. Io ho sempre pensato: “Ogni squadra è il mio Real Madrid”, e se lavoro bene, l’opportunità arriverà”.

A proposito di allenatori italiani, come valuta la scelta di Lotito di affidarsi a Baroni in questo nuovo ciclo?

“La Lazio veniva da un ciclo importante, concluso. Con una squadra costruita attorno a Immobile, Luis Alberto… Quando questi pilastri vanno via, hai due strade: o prendi calciatori dello stesso valore, o cambi filosofia e scommetti. E Baroni, secondo me, è un profilo che ha senso. Io, se fossi un dirigente, lo confermerei. Perché la squadra gioca bene, e in casa soprattutto si vede un’identità. Il vero problema è che Baroni ha fatto troppo bene all’inizio. Se i risultati attuali fossero arrivati all’inizio e poi la squadra fosse cresciuta verso la fine, oggi la percezione sarebbe molto diversa. Anche a parità di punti, la narrazione sarebbe: ‘ha fatto un grande lavoro’. È una questione di percezione. Vale anche per Ranieri: se avesse cominciato bene e poi avesse finito in crescendo, oggi non sarebbe visto come un Santo come viene dipinto. È l’ordine degli eventi che cambia tutto. Per quanto riguarda la Lazio, va anche detto che bisogna guardare la rosa per quello che è. Se fanno un miracolo, possono arrivare quarti, ma se fanno il loro, stanno tra il sesto e l’ottavo posto. Questo è, onestamente, il valore attuale della squadra”.

Parlando di cicli, Gasperini potrebbe aver finito il suo. L’Atalanta, a prescindere dal suo addio, può continuare così, con questa identità?

“L’Atalanta è un caso unico: stiamo parlando di una squadra che rappresenta una città di 100.000 abitanti, e che è riuscita a imporsi ad altissimi livelli per quasi un decennio. Questo non succede per caso. La differenza nel nostro calcio, secondo me, non la fanno solo gli allenatori o i calciatori: la fanno soprattutto i dirigenti. E l’Atalanta ha, forse, gli unici dirigenti davvero ‘illuminati’ nel nostro sistema. Quando vedi una squadra che funziona, spesso dietro c’è una dirigenza con idee chiare, con logica. Lo stesso vale per l’Inter: all’inizio del loro ciclo attuale, c’è stata una buona dirigenza, e i risultati sono arrivati. L’Atalanta, se davvero si arriverà alla fine dell’era Gasperini, bisognerà pensarci bene. Si può provare a proseguire con un profilo simile, come potrebbe essere Juric, ma il paragone con Gasperini sarà inevitabile. E reggere quel paragone sarà difficilissimo, perché quello che ha fatto Gasperini a Bergamo è semplicemente impensabile”.

Il Bologna, come l’Atalanta, sembra aver costruito qualcosa di molto solido...

"Lo posso confermare perché  conosco i Saputo. Lui è un imprenditore vero, che non cerca ribalta e non vende fumo. La prima cosa che ha fatto? Sistemare strutture e stadio, non comprare giocatori per far scena. E ha messo Fenucci a gestire, che è il vero deus ex machina. Le persone giuste al posto giusto: se hai idee e puoi metterle in pratica con le persone giuste, il risultato prima o poi arriva".

Passiamo a Conte. Lo vede ancora a Napoli? "Ho sempre detto che se Conte prepara una partita a settimana, è il miglior allenatore italiano. L’ha dimostrato ovunque. E infatti, se il Napoli non avrà le coppe o comunque ne avrà poche, lui può fare la differenza. I suoi limiti si sono visti più sulle competizioni europee, dove magari la gestione su più fronti gli ha creato problemi. Forse teme che se non gli danno una squadra adeguata, non riesce a reggere il doppio impegno. Le sue recenti dichiarazione secondo me sono una provocazione. Un modo per dire: ‘Datemi gli strumenti giusti’. Anche perché, se sei al Napoli, vinci lo scudetto o quasi lo sfiori, e poi vai via dopo un anno… dove sta il progetto? Se prendi Conte, devi dargli tre anni. Altrimenti cosa lo prendi a fare?".

C’è stato un possibile sliding doors: se Conte fosse andato al Milan questa estate? "Sicuramente non avrebbero fatto la stagione che hanno fatto. Avremmo visto un atteggiamento completamente diverso da parte dei giocatori. Sarebbe stato lì a lottare tra le prime quattro, questo è poco ma sicuro. Poi certo, non so se avrebbe vinto, ma avrebbe avuto un altro impatto. Anche perché l’anomalia vera è stato il Napoli dell’anno scorso, non di quest’anno".

Pantaleo Corvino e il Lecce. Un’altra realtà che lei conosce bene… "Con Pantaleo ho lavorato tre volte. Non siamo amici di telefonate e auguri, ma c’è stima. È uno che ci mette la faccia. Il Lecce ha un presidente leccese, e oggi è raro vedere società così riconoscibili. Una volta c’era Rozzi ad Ascoli, Berlusconi al Milan… oggi parli con fondi. E chi sono? Corvino ha un’identità e una passione che pochi hanno. Se retrocede? Può succedere. Ma come l’Empoli, poi ritorna. Non sarà mai una di quelle squadre che scompaiono".

Potrebbe esserci una quarta volta con Corvino? "Non lo so… Non dipende da me. Io sono atipico, non ho procuratore, non vado in giro a farmi vedere. Sto a Roma, non metto più piede all’Olimpico. Se vado a vedere la Lazio non riesco per troppo affetto, se vado a vedere la Roma non mi fanno entrare per il contrario (ride ndr)".