Nella finale di Copa del Rey, il Barça di Hansi Flick vince 3-2 un Clasico feroce, ribaltando un Real Madrid stanco e vulnerabile.
Barcellona-Real Madrid 3-2: undici anni di promesse tradite, attese frustrate, rancori mai sopiti. A Siviglia, nella febbrile cornice della Cartuja, blaugrana e blancos si sono ritrovati là dove il calcio si spoglia di ogni maschera: una finale di Copa del Rey, nuda e feroce, dove l’unico compromesso è con la verità. Il Barcellona ha trionfato 3-2, ma ridurre questa notte a un mero risultato sarebbe tradirne la sostanza profonda. Fin dal primo battito, l'aria era satura di veleno e redenzione. Le polemiche della vigilia — arbitraggio, tensioni istituzionali, accuse incrociate — avevano scavato solchi profondi nella psiche dei protagonisti. Il Real Madrid, ferito nell'orgoglio, è sceso in campo guidato più dalla rabbia che dalla lucidità. Ancelotti, azzoppato dagli infortuni, ha scelto la via più tortuosa: Mbappé in panchina, Mendy gettato nella mischia senza allenamenti veri, un 4-4-2 più nostalgico che efficace. Dall'altra parte, Hansi Flick ha gettato il cuore dei suoi nella tempesta: senza Lewandowski, si è aggrappato alla sfrontatezza di Fernan Torres, alla fantasia di Lamine Yamal, alla geometria perfetta di Pedri, alla furia ordinata di Raphinha. La risposta? Coraggio. Fiducia. Nessuna paura. Ne è la prova il primo tempo: una sinfonia catalana. Il Barça ha spezzato linee, inciso tagli profondi, cucito fraseggi chirurgici. E poi, al 28', il colpo: Pedri, direttore d'orchestra della squadra blaugrana, ha fulminato Courtois con un destro potente e preciso.
Ma il Real Madrid non sa morire senza lottare. Con l’ingresso di Mbappé nella ripresa, i blancos hanno trasformato la paura in furia. Il francese ha scaraventato una punizione che ha trafitto ogni resistenza blaugrana; poi Tchouaméni, con un colpo di testa rabbioso su corner, ha completato la rimonta. Il Barcellona, trafitto dalla propria arroganza, sembrava incapace di rialzarsi. Per lunghi minuti, il Real ha danzato sul ciglio della vittoria, accarezzando l'illusione di aver domato la ribellione catalana. Ma il Clasico è un Dio crudele. Non perdona chi osa assaporare troppo presto il trionfo. Così momento più nero, Lamine Yamal ha squarciato il cielo: uno scatto, un guizzo, un varco inventato dal nulla. Ferran Torres ha raccolto il suo assist, firmando il pareggio. Da lì, il Real ha cominciato a crollare sotto il peso dei propri nervi. E proprio sul limite, quando tutto sembrava destinato alla lotteria finale, sullo scadere dei tempi supplementari, Koundé ha punito l’ultima disattenzione madrilena, incidendo il 3-2 nella carne viva della partita. Giustizia e poesia, in un unico gesto.
Ancelotti ha pagato il prezzo di una stagione vissuta troppo spesso sull'orlo dell'improvvisazione: coraggioso, sì, ma fragile quando serviva freddezza. Il Barcellona ha mostrato la virtù più rara: colpire proprio nel momento in cui la paura paralizza. Con questa Coppa, Hansi Flick ha scolpito il suo manifesto: il Barcellona non è più un'eco del suo passato. È un progetto pulsante, pieno di vita e di ambizione. Le magie di Lamine Yamal, la freddezza di Cubarsí, la forza irriducibile di Koundé: ogni tassello racconta di una squadra giovane, imperfetta, ma capace di osare senza rimpianti. Per il Real resta l’amaro più difficile da masticare: non solo per la sconfitta, ma per il sospetto terribile che il ciclo di alcune certezze stia svanendo all’orizzonte. La prima è Carlo Ancelotti, pronto a salutare i blancos in direzione Brasile. Alla Cartuja si è celebrato un rito di passaggio: il Barcellona ha consacrato la sua nuova giovinezza, mentre il Real Madrid è stato costretto — brutalmente — a guardarsi allo specchio.