Flamengo e Chelsea sono due poli opposti di un asse invisibile che lega il calcio alla vita. A prima vista, sono due realtà distanti anni luce. Due modi diversi di celebrare lo stesso rito collettivo: quello del tifo come espressione identitaria. Da una parte, l’eccesso coreografico, la teatralità quasi religiosa del Sud America. Dall’altra, la memoria ostinata di un calcio operaio che rifiuta di estinguersi del tutto.
Il tifo
Flamengo – Chelsea: coreografie, cori e tifosi. Due mondi, una fede

Eppure, sotto forme diverse, brucia la stessa urgenza: quella di esistere sugli spalti, di cantare per affermare chi si è, di tingere lo stadio dei propri colori per dire al mondo: noi ci siamo. Che sia in rosso e nero o in blu, contro il logorio del calcio moderno.
Il Flamengo e la nazione rubro-negra

In Brasile si dice che la torcida do Flamengo sia la più grande al mondo. E non è un'esagerazione. Con oltre 40 milioni di tifosi dichiarati, il Flamengo non è semplicemente una squadra: è un’identità collettiva che va ben oltre i confini di Rio de Janeiro e si espande come una religione laica. La chiamano Nação Rubro-Negra, Nazione Rossonera.
Le torcidas organizzate, come Raça Rubro-Negra, Torcida Jovem do Flamengo e Urubuzada, non sono semplici gruppi di tifosi, ma veri e propri corpi intermedi tra società e popolo. Coordinano coreografie, dettano i cori, ma sanno anche farsi voce politica: il malcontento verso la dirigenza o le ingiustizie locali spesso parte proprio da lì, dai tamburi e dalle bandiere. La coreografia, in questo contesto, è molto più di uno spettacolo visivo: è un atto di resistenza. Enormi bandiere dipinte a mano, teli che coprono interi settori del Maracanã, tamburi incessanti e fuochi d’artificio illegali: tutto parla la lingua della collettività e del corpo. Ogni partita diventa un rituale urbano in cui il popolo riafferma la propria esistenza, rivendica la sua voce, i suoi colori, il suo spazio in una città che cambia troppo in fretta, sotto il peso delle speculazioni immobiliari e del calcio-business.
Ma la Nação non vive solo allo stadio. Vive nelle case, nei bar, nei vicoli e nelle favelas. Vive nella FlaMesa, una tradizione molto amata in cui amici e famiglie si ritrovano per guardare insieme la partita, condividendo cibo, birra e tensione. È lì che si rinnova, ogni volta, il patto collettivo: sostenere il Flamengo non è un hobby, è una pratica quotidiana di affetto e di lotta. Ogni tifoso ha una storia da raccontare. C’è chi ha ereditato la fede rossonera dal nonno, chi si è innamorato guardando la Libertadores del 2019, chi ha trovato nel Flamengo un motivo per sentirsi parte di qualcosa anche vivendo dall’altra parte del mondo.

La diaspora brasiliana ha portato i flamenguistas ovunque, e ovunque si organizzano, si riuniscono, seguono le partite, creano comunità. Anche online, la Nação è attivissima: milioni di follower su tutte le piattaforme, discussioni accese, video virali, meme, ironia, analisi tecniche e tributi commossi. I social diventano spalti virtuali, nuovi luoghi di aggregazione e militanza.
Ma l’aspetto più sorprendente è l’impegno sociale. I tifosi del Flamengo non si limitano a tifare: organizzano raccolte fondi, distribuiscono generi alimentari, supportano progetti educativi e promuovono valori di inclusione e uguaglianza. È anche questo che rende il Flamengo una forza culturale, un’estensione del popolo brasiliano che non accetta di essere relegato ai margini. Essere flamenguista è, in definitiva, una forma di partecipazione civile. Una militanza gioiosa e drammatica, teatrale e concreta. Una bandiera sventolata in faccia al mondo per dire: “Noi siamo qui. E siamo tanti”.
Chelsea: working class roots e calcio globale

Dall’altra parte dell’oceano, il Chelsea incarna un’evoluzione differente. Nato nel 1905 nel cuore di un quartiere operaio, Stamford Bridge è stato a lungo il teatro della working class londinese. I cori partivano dalla Shed End, la fede era totale, anche quando il campo restituiva solo delusioni.
Già dalla fine degli anni Sessanta, i tifosi dei Blues – insieme a quelli di Spurs e Gunners – iniziarono a definire uno stile di tifo preciso, riconoscibile. In un’Inghilterra post-bellica attraversata da esplosioni giovanili e sottoculture in fermento, gli stadi diventarono centri nevralgici: luoghi d’aggregazione, culla di mode, terreno di scontro. A Londra, la curva del Chelsea ne amplificava ogni influenza, come in un laboratorio sociale a cielo aperto.
Negli anni ’80, il tifo organizzato di Stamford Bridge assunse toni più duri e controversi, attraversato dall’ombra degli Headhunters: ultras fedeli ma pericolosamente legati all’estrema destra. Grandi, grossi, tatuati fino al cranio rasato, erano l’incarnazione del malessere popolare e della cultura da stadio più cruda. Un’identità urbana, viscerale, fatta di codici, rituali e appartenenze granitiche.

Poi, nel 2003, tutto cambia. Con l’arrivo di Roman Abramovich, il Chelsea si trasforma in un marchio globale. Dalla periferia di Londra al mondo intero, il club diventa sinonimo di successo, lusso e visibilità. Stamford Bridge, da fortezza operaia, diventa un teatro gentrificato, dove il tifo si consuma più che crearsi. Ma tra un selfie in tribuna e una birra da hospitality, qualcosa resiste.
Blue is the Colour, Carefree, Keep the Blue Flag Flying High: non sono solo cori, ma tracce di un’identità che – nonostante tutto – cerca ancora un posto dove esprimersi.
Oggi, essere tifoso del Chelsea significa far parte di una comunità globale. La nazione Blue canta con la stessa voce, raccontando battaglie e trionfi: la Champions League del 2012, quella del 2021, la Premier dominata nel 2015 con Mourinho, Hazard, Diego Costa e Fàbregas a dettare legge. Ogni vittoria è un’esplosione. Ogni caduta, un giuramento di fedeltà rinnovato.
Perché il Chelsea non è sempre stato champagne e trofei. Ci sono stati gli anni bui, le retrocessioni, le stagioni anonime, le crisi economiche. Ma è proprio lì, nella sconfitta, che i tifosi hanno mostrato chi sono. E oggi, anche se Stamford Bridge è diventato una delle Instagram opportunity più quotate del pianeta, resta – almeno per novanta minuti – un luogo sacro, dove la tribù si ritrova. E canta ancora.
Flamengo e Chelsea, tra tifo e territorio: chi appartiene, chi rappresenta

La differenza tra le coreografie del Flamengo e quelle – assai più rare – del Chelsea non è solo estetica: è politica, culturale, sociale. In Brasile, nonostante le campagne repressive, il tifo organizzato conserva una certa autonomia. Le torcidas sono tollerate, a volte perfino corteggiate dai club. In Inghilterra, la Thatcher prima e la Premier League poi hanno progressivamente svuotato gli stadi di spontaneità: biglietti sempre più cari, settori popolari ridotti al minimo, sorveglianza capillare. Così, a Rio le coreografie sono corpi in sincrono, onde sonore che travolgono. A Londra, sono perlopiù iniziative del club o lampi isolati durante i big match europei. Non c’è una curva che guida: ci sono settori che reagiscono. La partecipazione è frammentata, l’identità diffusa.
Il Flamengo è Rio, sì, ma è anche Belém, Salvador, Manaus. È la squadra del Brasile profondo, della gente. In curva si canta il nome di Zico e si invoca il fuoco sacro dell’orgoglio rubro-negro. La maglia è vessillo, bandiera, rivalsa. Il Chelsea, invece, rappresenta un quartiere diventato status. Ha attraversato trasformazioni profonde, ma per molti londinesi resta ancora un simbolo della working class che resiste alla gentrificazione di King’s Road.
Entrambe le tifoserie, a modo loro, usano la curva per riaffermare un’appartenenza. Una al popolo, alla collettività, al sogno di riscatto. L’altra a un’epopea urbana in via d’estinzione, a un calcio che non vuole sparire dietro le quinte patinate dello storytelling globale.
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