Due visioni a confronto

Luis Enrique contro Inzaghi, il duello tattico più “elegante” d’Europa

Inzaghi Luis Enrique
Luis Enrique e Inzaghi : eleganza tattica contro rigore geometrico. È il duello più affascinante d’Europa, tra due allenatori che hanno dato un’identità forte e moderna alle loro squadre
Silvia Cannas Simontacchi
Silvia Cannas Simontacchi

Nel calcio dei numeri, degli expected goals e del pressing alto calcolato al millesimo, ha ancora senso parlare di eleganza? La risposta si trova in campo, anzi, in panchina. Da una parte Luis Enrique, dall’altra Simone Inzaghi, per il duello più raffinato d’Europa. Due visioni di gioco diverse, una convinzione condivisa: che anche la tattica possa essere bella da vedere.

Entrambi sono arrivati in finale di Champions League. Non per caso, né per fortuna. Ci sono arrivati perché le loro squadre hanno un’identità precisa, riconoscibile. Luis Enrique ha impresso il suo marchio su un PSG finalmente maturo, meno “bling-bling” e più europeo, capace di giocare da squadra. Inzaghi ha trasformato l’Inter in una macchina quasi perfetta, capace di battere chiunque senza snaturarsi.

Due visioni di gioco, la stessa ambizione

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Il tecnico del Paris Saint-Germain è il volto più moderno della scuola spagnola: stile Barça, ma senza rigore ideologico. Il suo calcio è fatto di palleggio serrato, controllo, e accelerate. Sa trasformare i terzini in mediani, gli esterni in rifinitori, gli interni in incursori che spezzano le linee. Quando Kylian Mbappé ha salutato Parigi, dopo 256 gol in 308 partite, Luis Enrique ha promesso che il PSG sarebbe diventato più forte. Sembrava una provocazione, invece così è stato. Sono arrivati altri giocatori, forti e costosi, ma ciò che è cresciuto davvero è il gioco. Il suo PSG non è più una vetrina di talenti: è diventato un gruppo dove ognuno fa la sua parte.

Inzaghi viene da un altro mondo. Più terra-terra, se vogliamo: dalla Lazio dei miracoli all’Inter della seconda stella. Il suo 3-5-2 non è affatto scolastico: è un sistema elastico, costruito su rotazioni, inserimenti e tempi perfetti. Ogni giocatore sa dove andare, quando muoversi e con chi dialogare. E lo fa con una naturalezza disarmante. Le sue famose – forse troppo – incursioni, ben oltre i confini dell’area tecnica, sono diventate argomento di dibattito nazionale. In quel gesto, che sfiora la sanzione, c’è tutto: è l’effetto di una scarica mistica che attraversa tutta la squadra, che l’allenatore trasmette ai suoi ragazzi come un catalizzatore.

Il PSG di Luis Enrique: appuntamento con la Storia

Luis Enrique contro Inzaghi, il duello tattico più “elegante” d’Europa- immagine 2
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Luis Enrique è un allenatore atipico, dal carattere schivo e diretto, che rifugge ogni tipo di protagonismo. Parla poco, non ha social network, non si concede ai riflettori, non cerca di piacere. Il suo approccio è essenziale, quasi ruvido. Forse, proprio questa sobrietà sta facendo la differenza nel club parigino, da anni abituato a una comunicazione sfarzosa, ma non sempre in linea con i risultati sul campo.

Al suo arrivo a Parigi, molti lo hanno accolto con scetticismo. Troppo diverso dai profili patinati del passato. Invece, a distanza di due anni, il PSG è cambiato radicalmente: l’asturiano con la giacca stirata e lo sguardo da professore ha preso una rosa lussuosa e l’ha resa funzionale. Ha fatto spazio a nuovi interpreti, scommettendo su giovani come Warren Zaïre-Emery – che a 19 anni è già una colonna del centrocampo – e valorizzando profili come Barcola, Dembélé, Nuno Mendes, Hakimi, João Neves e Désiré Doué.

Si può dire che, dopo l’addio di Mbappé, il posto di fuoriclasse lo abbia preso proprio Luis Enrique. La squadra gli ha risposto con una crescita costante, con un percorso senza sbavature in Champions League e conquistando la Coppa di Francia con un secco 3-0 sul Reims. I terzini si trasformano in centrocampisti, gli esterni entrano dentro al campo, gli interni tagliano in verticale: è una sinfonia tattica che funziona perché tutti ne conoscono il ritmo.

“Qualcuno deve aprire la strada”, ha dichiarato Luis Enrique, parlando della possibilità di vincere la prima Coppa dalle grandi orecchie della storia del club. È una missione che sembra fatta apposta per lui: uno che non ama le luci della ribalta, ma sa come prepararsi per un appuntamento con la Storia.

L’Inter di Simone Inzaghi: follia organizzata

Inzaghi Luis Enrique
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Se Luis Enrique è l’allenatore-filosofo, Simone Inzaghi è l’allenatore-geometra: meno attratto dai sistemi teorici, più ossessionato dalle connessioni tra i reparti, dalle linee di passaggio, dalla sincronia dei movimenti. Con una memoria prodigiosa per i dettagli, e una calma che nasconde ambizione feroce. Meno celebrato, forse, ma per questo ancora più pericoloso. Quando arrivò sulla panchina nerazzurra, nell’estate post-scudetto del 2021, in pieno clima da smobilitazione post-Conte, non ha fatto rivoluzioni. Ha fatto di più: ha affinato, semplificato, sciolto certi vincoli emotivi. Ha preso una squadra forte e l’ha resa consapevole.

In Europa, l’Inter è diventata una macchina quasi inarrestabile, costruita su un equilibrio dinamico: difende con ferocia, riparte con eleganza, attacca con una geometria quasi musicale. Il 3-5-2 di Inzaghi è un sistema vivo, che si muove a memoria ma non è mai prevedibile. C’è libertà dentro un disegno preciso. C’è la verticalità chirurgica, le uscite palla a terra dal basso, i tagli di Dimarco, i gol di Lautaro, la tenacia di Acerbi. C’è follia, ma è follia organizzata.

Simone non ha bisogno di slogan, né di dichiarazioni roboanti. In molti lo consideravano un tecnico troppo aziendalista, privo del carisma necessario per raccogliere l’eredità di Antonio Conte. Invece, ogni sua scelta — ogni cambio di modulo, ogni rotazione tra esterni e mezzali, ogni pressing mirato — ha rivelato una visione lucida, affinata sul campo e nei dettagli. E quando scatta a bordocampo, sotto la pioggia, come un attaccante a fine corsa, è chiaro che la sua non è solo passione: è trasmissione. È il suo modo fisico e istintivo di entrare in partita e portarci dentro anche la squadra.

Di sette finali di Champions, due portano la firma di Inzaghi. La sua Inter è pazza, imprevedibile, affamata. È una squadra da battere, e ne è consapevole. Ed è con questa consapevolezza — fatta di sudore, disciplina e una strana grazia — che sabato sera si giocherà la vita.