Jonatan Binotto fa parte di quella generazione di centrocampisti duttili e tecnici che hanno attraversato la Serie A tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila. Nato a Montebelluna nel 1975, debutta tra i professionisti con l’Ascoli in Serie B, ma è la stagione 1997-98 con il Cesena a lanciarlo davvero: 5 gol in 33 presenze bastano per attirare l’attenzione del Bologna di Carlo Mazzone. In rossoblù vive tre stagioni intense, fatte di ottime prestazioni, ma anche di qualche infortunio di troppo. Nel 2001 arriva la grande occasione con l’Inter, ma un grave stop fisico durante la preparazione ne frena l’ascesa.
Esclusiva
Binotto: “Senza giovanili non si riparte. La crisi SPAL è lo specchio del calcio italiano”

Conclusa la carriera da calciatore, Binotto sceglie di ripartire dalla panchina. Inizia allenando nei settori giovanili di SPAL e Bologna, poi fa esperienza come vice in Serie C con Montevarchi e Alessandria. Nel 2024 viene chiamato alla guida della prima squadra grigia, ma non riesce a evitarne la retrocessione.
In questa intervista esclusiva, Binotto riflette con lucidità e profondità su cosa significhi davvero formare un calciatore. Parla della crisi della SPAL, dell’importanza — troppo spesso trascurata — del vivaio e della progressiva perdita di identità di un calcio italiano che, tra risultati immediati e modelli importati, sembra aver smarrito la rotta.
L'intervista a Jonatan Binotto

Dalla Serie A alla Serie D in appena quattro anni: la parabola della SPAL ha un po' scioccato tutti. Quali sono le tue impressioni su quanto è successo?
—Situazioni come questa stanno diventando sempre più frequenti: stavolta è toccato alla SPAL. Sono molto vicino a chi lavora nella società, e mi dispiace sinceramente per loro. Sono persone molto legate alla maglia e ai colori, e credo stiano attraversando un momento davvero difficile. Però, parliamo di una problematica che riguarda tutto il calcio italiano. Secondo me, alla base c’è una mancanza di cultura e di organizzazione: una società, come un’azienda, deve fare i conti con la necessità di fare profitti. Ma, per generarli, bisogna investire con metodo, scegliere le persone giuste, costruire un progetto solido. Quando invece si improvvisa, la situazione può sfuggire di mano, come stiamo purtroppo vedendo.
Quindi, troppe figure pensano che sia tutto più semplice di quello che è?
—Si crede di poter fare soldi facili, come se fosse scontato. Ma non lo è. Certo, il calcio ti dà una visibilità enorme, che pochi altri ambiti ti offrono: questo lo capì per primo Berlusconi quando rilevò il Milan; lì c’era un’organizzazione solida e le persone giuste al posto giusto. Oggi si crede che basti semplicemente “comprare il marchio”, e il gioco è fatto. Il rischio è buttare via anni di storia senza considerare che dietro quelle società ci sono persone che lavorano, con passione e dedizione.
Oggi realtà come la SPAL, nonostante la loro tradizione, affrontano le stesse difficoltà di molte squadre in Serie C. Un campionato in cui arrivare a fine mese è già un piccolo miracolo.
Che cosa è mancato? Le idee, la capacità di reggere nei momenti difficili o qualcosa di diverso?
—Conosco bene i tecnici che hanno lavorato lì: sono professionisti seri, capaci e preparati. Forse, è mancata una figura di riferimento più presente e concreta, come lo era in passato Joe Tacopina. Quest’anno, questa presenza si è sentita meno, e forse è proprio questo che ha fatto la differenza. Mi dispiace anche per lui, perché ho avuto modo di vederlo all’opera a Bologna. Ha innescato della rinascita del club: ha portato Saputo, attratto nuovi investitori, costruito basi solide per il futuro... Immagino volesse replicare quel modello anche alla SPAL, ma Ferrara non è Bologna. È una realtà diversa, con meno visibilità e una struttura territoriale più chiusa, e questo può aver reso tutto più complicato.
Quando poi i risultati non arrivano, è tutto più difficile. So di persone pronte a rinunciare allo stipendio pur di salvare la società: l’attaccamento c’è, ed è reale. Ma è un attaccamento molto “interno”, fortemente radicato nella città, senza un’apertura vera verso l’esterno. Non so se sia una questione culturale o strutturale, ma è probabile che Tacopina avesse in mente un progetto ambizioso, che — per tanti motivi — non è riuscito a portare avanti.

MILANO, ITALIA - 10 NOVEMBRE: Obafemi Martin #30 dell'Inter e Jonatan Binotto #14 del Bologna lottano per il pallone durante la partita del 10 novembre 2004 a Milano. (Foto di New Press/Getty Images)
Quanto può risentirne il settore giovanile?
—Tantissimo. Ho avuto la fortuna di lavorare lì, e si era creato qualcosa di importante per una società di questo livello. Era stato aperto un convitto, c’erano tantissimi ragazzi che venivano non solo da Ferrara, ma da tutta Italia. Era una struttura dove potevano vivere e allenarsi, ben organizzata. Oggi tutto questo sparisce. Perché, se non sei più tra i professionisti, i ragazzi più bravi te li portano via gratis — sono svincolati — ed è già un grande problema. Ricostruire un settore giovanile ripartendo dall’Eccellenza o dalla Serie D è molto difficile. Devi rifondare tutto, ma non hai più una selezione nazionale. E se attorno a te ci sono società più forti, i ragazzi più promettenti sul posto sono già presi.
Non fai più selezione, né vera formazione. E la qualità ne risente, purtroppo.
Si parla spesso dei giovani come di un investimento a lungo termine. Credi che ci sia davvero la voglia di puntare su di loro?
Te lo dico in una parola sola: no. Del resto, se mettiamo il risultato davanti a tutto, non resta più spazio per la formazione. Il risultato dovrebbe essere la conseguenza naturale di un percorso, non il punto di partenza. Ma formare richiede tempo, qualità, attenzione ai dettagli. E soprattutto, lavoro quotidiano: dall’impostazione degli allenamenti, alle esercitazioni mirate, fino alle esperienze vissute sul campo.
Ho sempre pensato che un ragazzo sia come una valigia vuota. Una valigia che, nel corso degli anni, ogni allenatore contribuisce a riempire: una maglia bianca, una blu, una rossa, pantaloncini lunghi o corti, calzettoni, scarpe… Alla fine, però, sarà lui a decidere come vestirsi. A scegliere cosa tenere e cosa no. Il nostro compito è solo quello di offrirgli strumenti, alternative, possibilità. Oggi ai ragazzi non si chiede più di pensare: gli si dice cosa fare. Stop. Si consegnano soluzioni preconfezionate, che magari funzionano nel breve periodo, ma li impoveriscono nel lungo.
E poi ci sorprendiamo se la Nazionale fatica. Io, i ragazzi del 2006, quelli del Mondiale, li ho vissuti: erano cresciuti in un sistema che lasciava spazio, che non soffocava il talento. Oggi invece tendiamo a chiudere i giovani dentro le nostre idee, invece di stimolarli a sviluppare le loro. Vogliamo avere il controllo, perché ci illudiamo che ciò che decidiamo noi sia sempre la strada giusta. Ma alla fine, chi ci guadagna? Noi tecnici? Se l’obiettivo è farli giocare bene solo per far sembrare noi bravi, abbiamo già perso. Il vero tecnico è quello che riesce a far emergere il potenziale degli altri. È tutta un’altra cosa.
Ammetto che all’inizio non sia semplice: quando ho smesso di giocare e ho iniziato ad allenare, ero molto direttivo. Per me era tutto ovvio. Poi ho iniziato a mettermi nei loro panni, ed è cambiato tutto. Con i più grandi, che sono ormai “prodotti finiti”, il lavoro è un altro. Ma nel settore giovanile il compito non è comandare. È formare. E per farlo, bisogna saper fare un passo indietro.
Intanto, non ci siamo qualificati per il Mondiale per due edizioni di fila, ed è a rischio anche la terza. Questa crisi della Nazionale è sintomo di una crisi più ampia del calcio italiano?
Solo dieci anni fa, un calciatore straniero veniva in Italia perché la Serie A era il campionato più bello, più competitivo, più ambito. Era una meta. Oggi, invece, è diventata quasi una scelta di ripiego. Prima si guarda all’Inghilterra, poi alla Spagna, poi alla Germania… e forse, solo dopo, all’Italia. Magari anche la Francia ci passa davanti. I titolari della Nazionale francese, per esempio, giocano nei top club della Ligue 1 o nei principali campionati europei. Le riserve, invece, spesso le troviamo in Serie A.
I bambini portano solo maglie di giocatori stranieri, perché di campioni italiani ce ne sono pochi. Un tempo, la maglia di Zidane era quella della Juve, quella di Ronaldinho era del Milan, la maglia di Ronaldo il Fenomeno era dell’Inter… I campioni giocavano qui. E misurarti con i migliori ti costringeva a migliorare. La Serie A era un banco di prova durissimo. Oggi, quel livello è più difficile da raggiungere, perché quei campioni non vengono più.
Ci raccontiamo ancora di essere i più bravi, ma non è più così. E la Nazionale è lo specchio di questo declino. Personalmente, penso che l’Italia dovrebbe partecipare ai Mondiali solo se lo merita davvero. La qualificazione va conquistata, passo dopo passo, con un progetto serio, strutturato. E oggi, purtroppo, non stiamo lavorando bene. Recentemente abbiamo vinto un campionato europeo e ne sono stato felicissimo, però, se analizziamo bene com’è andata, direi che abbiamo avuto anche tanta fortuna. Se non c’è un metodo, non si può essere competitivi, si è in balia degli eventi.

23 luglio 2001: Jonathan Binotto dell'Inter in azione durante una partita di precampionato giocata tra Inter e Bormiese a Bormio, Italia. IMMAGINE DIGITALE. Crediti obbligatori: GRAZIA NERI/ALLSPORT
Come si dovrebbe ripartire?
—Da un settore giovanile solido e ben strutturato. È così che si costruisce il futuro: mettendo i giovani al centro, non solo a parole. Devono essere la priorità assoluta, e l’intero sistema deve lavorare per loro. A cominciare da noi adulti. Il problema è viviamo in un contesto culturale che non favorisce questo approccio. Tutto deve essere veloce, immediato: il risultato subito e la formazione magari dopo.
Abbiamo davanti due strade: o ci accontentiamo, oppure ci adattiamo – come hanno fatto altri. Ma se scegliamo di adattarci, non possiamo farlo rinunciando a ciò che siamo. Dobbiamo restare fedeli alle nostre idee, ai nostri principi. Solo così possiamo avere un’identità, e far crescere davvero i ragazzi.
Eppure ci sono brutti episodi che avvengono troppo spesso: genitori che arrivano addirittura a picchiare gli arbitri in partite Under 15…
—Purtroppo, sempre più genitori si sentono realizzati solo se il figlio raggiunge un certo livello — in termini economici, di status, di visibilità. È una proiezione personale, alimentata da un mondo dove tutto si esibisce sui social. Per molti, la Serie A non è più solo un sogno, ma qualcosa che potrebbe essere alla portata del proprio figlio. Nasce l’illusione di avere in casa il nuovo Ronaldo o il nuovo Messi. E allora si investono tempo, soldi e aspettative, fino a confondere il desiderio con la realtà. Da lì nascono comportamenti esasperati: non è solo una questione di vincere o perdere una partita, o di un rigore non dato. È la paura che, se il figlio non va in finale, perda visibilità, opportunità, “futuro”.
Ma se partiamo sempre dal risultato, non potremo mai costruire una vera formazione. Dobbiamo tornare a dare valore al percorso, perché i risultati si costruiscono nel tempo, e anche le sconfitte servono, aiutano a crescere. Si dice che chi vince festeggia e chi perde spiega: io ho sempre pensato che chi perde impara. Se sbaglio un passaggio oggi, ci lavoro su. E magari domani quel passaggio lo azzecco, e da lì parte un’azione decisiva.
Gli errori fanno parte del gioco — e della vita. Ma per trasformarli in occasioni di crescita serve attenzione, preparazione, consapevolezza. Se non lasciamo al ragazzo lo spazio per sbagliare, non imparerà mai a fare la scelta migliore.
Un’ultima domanda: cosa diresti oggi a un ragazzo che sogna di diventare calciatore?
—È una domanda complessa, perché ognuno vive il proprio sogno a modo suo. Io posso solo dirti come è stato per me: cosa provavo io, cosa significava ogni allenamento, ogni partita, ogni gol. Quanto mi emozionava, semplicemente, giocare. Ma oggi, cosa vuol dire davvero fare il calciatore? Per molti è visibilità, fama, soldi. Per altri è ancora passione pura, voglia di migliorare, amore per il gioco. La differenza sta lì: se lo fai per quello che sei, o per quello che vuoi mostrare.
Una volta c’era solo il pallone. Niente telefoni, niente social. Si giocava per strada, e in quelle partitelle c’era una selezione naturale: chi aveva qualcosa in più, andava avanti. Oggi ci sono dinamiche nuove, procuratori, scorciatoie vere o presunte, illusioni facili.
Il consiglio che darei? Vivitela fino in fondo. Senza finzioni. Dai tutto quello che hai, in modo consapevole, perché non è detto che arrivi al top — e va bene anche così. Ma se ti esprimi davvero, se dai il massimo, qualcosa ti resterà. Anche come persona.
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