Ci sono dolori che non si possono raccontare, solo portare. Come si porta una cicatrice sotto la pelle, invisibile agli occhi ma viva, pulsante. Luis Enrique ha imparato a convivere con uno di quei dolori che non si scelgono, che non si superano, che ti cambiano per sempre: la perdita della sua piccola Xana, volata via a nove anni, rapita da un male troppo grande per un corpo così piccolo.
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L’amore di un padre vince la morte: Luis Enrique e Xana, un legame indissolubile

“Mia figlia è con me dal momento in cui è andata via”. Non è una frase, è un sussurro che scavalca la logica, un atto di fede laica, un modo per non impazzire. È andata via con il corpo, sì, ma non se n’è mai andata davvero. Lei è nelle pieghe delle sue giornate, nei vuoti improvvisi che sembrano pieni, nei silenzi che parlano più di mille urla. È lì, ogni volta che chiude gli occhi. È lì, in ogni passo che fa, anche quando corre a bordo campo, anche quando tutti lo vedono forte e intero.

Perché nessun genitore dovrebbe seppellire il proprio figlio, e chi lo fa, in realtà, non lo seppellisce mai del tutto. Lo porta. Lo trasporta ogni giorno in un presente che non lo prevede, in un tempo che continua a scorrere anche se per te si è fermato. Si nasce, si muore, e tutto il resto si vede, dice Luis Enrique con quella semplicità disarmante che solo chi ha guardato in faccia l’abisso può permettersi.
Non è la Champions che potrà restituirgli un sorriso vero, e non è una medaglia che potrà consolarlo. Non serve vincere per ricordarla. Non serve nulla, perché lei c’è. È una presenza che non si vede ma si sente, come quando il vento ti accarezza all’improvviso e tu, per un secondo, pensi che sia una mano familiare. Come il profumo dell’erba in primavera, che riporta alla mente qualcosa che non sai nemmeno spiegare.

Il tempo non guarisce, il tempo insegna a stare in piedi con una gamba sola. E lui ha imparato a camminare così, con il cuore zoppo ma lo sguardo dritto. “L’albero a cui tendevi la pargoletta mano...” continua a fiorire, anche se quella mano non lo sfiora più. Anche se la voce che rideva tra le foglie ora è un ricordo sospeso nell’aria.
Eppure, in quel ricordo c’è forza. In quella mancanza, c’è una presenza più viva di tante presenze piene di rumore e vuote d’amore. Xana vive nello spirito, e lo spirito non ha bisogno di clamore per esistere. È lì, nel modo in cui Luis Enrique respira, si muove, tace. È la guida invisibile che lo tiene in equilibrio mentre tutto intorno potrebbe crollare.

A volte basta poco. Una luce che filtra da una finestra. Il rumore del mare. Il sorriso di un bambino che non conosci. Ed eccola. Come una nota sospesa che non smette di vibrare. Come una domanda che non avrà mai risposta ma che non smetterai mai di fare. “Saresti uguale, se ti rivedessi?”. Forse no.
Ma in fondo non importa. Perché l’amore non ha forma, ha solo sostanza. E quella sostanza vive, oltre la pelle, oltre la morte, oltre tutto ciò che possiamo capire. Luis Enrique non ha scelto di diventare il simbolo di questo dolore. Ma lo è. E lo è con una grazia feroce, con una forza che commuove e disarma. In un mondo che dimentica in fretta, lui ricorda con lo spirito. E nello spirito, Xana continua a vivere. Non come una ferita, ma come una luce. Una luce che non si spegne mai.
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