INTER-MILAN 1-0

Inter, naturalmente

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La sequenza degli ultimi quattro «set», fra coppe e campionato, conferma le differenze, accentua le distanze: 3-0, 1-0, 2-0, 1-0. L’ultima italiana in finale era stata, nel 2015 e nel 2017, la Juventus di Allegri. L’Inter aspetta notizie da...
Enrico Vitolo

Inter, naturalmente. Toccherà a lei – il 10 giugno, giorno di «decisioni irrevocabili» – contendere la 68a. edizione della Coppa dei Campioni/Champions League al Manchester City del Pep o al Real di Carletto. Alla sesta finale, dopo tre hurrà: i due di Herrera (1964, 1965) e l’ultimo, firmato Mourinho, nel 2010. L’anno del triplete. Con un allenatore italiano e italianista, Simone Inzaghi detto Inzaghino.

C’è stato poco derby anche stavolta

La propaganda aveva battuto la grancassa, ma poi si va in campo e gli strilloni risalgono in bici. Si gioca. Servono squilli, non frilli. L’Inter era già più forte in estate: oggi, non ne parliamo. Altro passo, altra cilindrata. Ha deciso Lau-Toro, in mischia, su invito «trafficato» di un Lukaku che aveva appena sostituito Dzeko. Sul quale, nel primo tempo, Maignan si era superato. Non sul rasoio improvviso dell’argentino. Capita. Nessuno è perfetto. Il Milan ha fatto quel che poteva; l’Inter, quel che doveva. E’ stata, l’ordalia, un italico cozzo di scudi e ferraglie, con il 2-0 dell’andata che offriva scialuppe comode agli uni e salvagente precari agli altri. I diritti al risparmio e i doveri di rimonta si sono mescolati e confusi, portando la trama a ribaltoni frequenti, su ritmi non banali. Fino a quando, almeno, gli opliti di Inzaghi hanno accelerato e le guarnigioni di Pioli – in debito di tutto: ossigeno, idee, mira – si sono arrese.

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(Photo by Emilio Andreoli - Inter/Inter via Getty Images)

No, non è stata una notte da rime baciate. La bellezza, ammesso che sia il termine esatto, va ricercata nel pathos che trascinava il popolo di San Siro e accomunava i duellanti, creando vortici improvvisi, alzando brandelli di onde che gli argini domavano senza «porgere» guance superflue. Se non la parata di Onana su Brahim Diaz, in avvio, non rammento altre occasioni del Diavolo. Un gol, certo, avrebbe potuto sedurre il destino e indurlo in tentazione. Troppo poco, però, per incollarci rimpianti o (magari) rimorsi. C’era Leao. Attesissimo, ma anche marcatissimo (da Dumfries, da Darmian). Una sgommata a fil di palo e stop. Se gli dai spago, t’impicca; se glielo neghi, s’incarta. Deve imparare a giocare «orizzontale», che non significa fare il terzino.

L’infortunio di Mkhitaryan, l’ingresso di Brozovic, la staffetta Dzeko-Lukau hanno pian piano allontanato la contesa dal concetto di lotteria che, spesso, accompagna e condiziona il «giuoco» del calcio. La ripresa è stata tutta, o quasi, dell’Inter. Al di là e al di qua dell’episodio che l’ha orientata. Non so cosa avrebbe potuto inventarsi Pioli. Mi ha deluso, molto, Giroud: Acerbi lo ha cancellato, letteralmente. Sono contento per Inzaghino, che le 11 sconfitte di campionato avevano ridotto alla stregua di macchietta. «Spiaze» un corno. Una citazione? Darmian. Battezzato da Conte, cresimato da Simone. Il classico soldatino che ai sogni ha sempre preferito le sveglie.

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