derbyderbyderby esport Esports, finisce l’era dell’hype: ora conta la sostenibilità

un settore in crescita

Esports, finisce l’era dell’hype: ora conta la sostenibilità

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Dopo un decennio di crescita accelerata e investimenti basati più sulle aspettative che sui ricavi reali, il settore del gaming competitivo sta attraversando una fase di profondo assestamento
Stefano Sorce
Stefano Sorce

Per anni gli Esports sono stati raccontati come il futuro inevitabile dell’intrattenimento sportivo: investimenti milionari, team valutati come club storici, sponsor pronti a entrare a qualsiasi costo. Oggi, però, il clima è cambiato. E chi segue il settore da vicino lo sa bene: l’era dell’hype facile è finita. Il linguaggio stesso con cui si parla di esports è mutato: meno promesse, più prudenza, meno annunci roboanti, più attenzione ai numeri. Quello che molti definiscono “Esports Winter” non è un crollo improvviso, ma una fase di assestamento. Una transizione che ricorda da vicino ciò che il calcio ha già vissuto in passato, quando l’entusiasmo iniziale ha dovuto fare i conti con la sostenibilità economica.

Negli ultimi dieci anni il mondo Esports ha vissuto una crescita rapidissima, spesso sostenuta da capitali esterni e aspettative altissime. In molti casi si è investito più sul potenziale che sui ricavi reali, inseguendo valutazioni e visibilità invece di stabilità. Il risultato è stato evidente: stipendi molto alti per i giocatori, strutture costose, organizzazioni costruite più per “fare rumore” che per durare nel tempo. Quando il contesto economico globale è cambiato, con minore liquidità e maggiore attenzione ai bilanci, quel modello ha mostrato tutti i suoi limiti.

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Tagli, fusioni e nuovi modelli: il settore si ridimensiona

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Negli ultimi mesi sono aumentati i segnali concreti di questo cambio di fase: tagli al personale, riduzione dei roster competitivi, fusioni tra organizzazioni e l’uscita di scena di alcuni team storici. Non si tratta di una crisi episodica o legata a singoli casi, ma di un processo strutturale. Gli investitori oggi chiedono sostenibilità, non solo visibilità. E chi non è in grado di dimostrarla fatica a restare in piedi in un mercato sempre più selettivo. Uno dei nodi centrali riguarda la fine della dipendenza totale dagli sponsor. Per anni sono stati la principale, se non l’unica, fonte di entrata per molte organizzazioni. Oggi non basta più.

Le realtà che stanno reggendo meglio sono quelle che hanno iniziato a costruire modelli alternativi e più articolati: merchandising proprietario, produzione di contenuti continuativi, abbonamenti per i fan, eventi fisici, community locali e una gestione più consapevole dell’immagine del brand. Un percorso che, in scala diversa, ricorda quello affrontato da molti club calcistici moderni: meno improvvisazione, più pianificazione, più attenzione al rapporto con il pubblico.

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L’Esports Winter come fase di maturità del sistema

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L’Esports Winter segna anche la fine di un racconto troppo patinato. Meno annunci sensazionalistici, meno cifre fuori mercato, meno “all-in” senza basi solide. In cambio arrivano controllo dei costi, pianificazione a medio termine e una maggiore attenzione alla sostenibilità complessiva del progetto. È una fase meno spettacolare, ma probabilmente necessaria per evitare che il settore resti intrappolato in una bolla permanente. Come in ogni industria giovane, questa fase farà selezione. Sopravvivranno le organizzazioni capaci di adattarsi, di trattare gli esports come un’impresa vera e non come un esperimento finanziato dall’hype.

Chi invece resta ancorato al modello della crescita a tutti i costi rischia semplicemente di non superare l’inverno. L’Esports Winter non è la fine degli esports, ma la fine di un’illusione. Ed è proprio da questo passaggio, più duro e meno spettacolare, che può nascere un settore finalmente credibile, sostenibile e pronto a durare nel tempo, proprio come è successo, non senza difficoltà, anche nel calcio.