Il derby di Glasgow Rangers-Celtic è molto più di una semplice partita. È un’emozione che scorre nel sangue, una rivalità che unisce e divide, rappresentando orgoglio e passione per le due anime calcistiche della città: i Rangers e il Celtic. Ogni incontro è un capitolo di una storia che dura da oltre un secolo, scritto con sudore, sacrifici e vittorie.
L'intervista
ESCLUSIVA Rangers-Celtic, Amoruso: “Old Firm, leadership e un capitano inaspettato”

GLASGOW - MAY 31: Winning goalscorer Lorenzo Amoruso of Rangers celebrates victory after the Tennant's Scottish Cup Final match between Dundee and Glasgow Rangers held on May 31, 2003 at Hampden Park, in Glasgow, Scotland. Glasgow Rangers won the match and cup 1-0. (Photo by Ben Radford/Getty Images)
In questo scenario di sfida e orgoglio, Lorenzo Amoruso è stato una delle figure più emblematiche dei Rangers ed ha giocato numerosi Rangers-Celtic. Arrivato da Bari, il difensore italiano ha conquistato il cuore dei tifosi con la sua determinazione, la sua grinta e il suo spirito di sacrificio. La sua storia con il club è fatta di trionfi, ma anche di momenti di difficoltà che ha saputo affrontare con la forza di un vero capitano. Il suo legame con i Rangers e con i tifosi è un legame speciale, un amore che non svanisce mai, un legame che va oltre il calcio.
Oggi, mentre il derby Rangers-Celtic continua a infiammare gli animi, siamo stati onorati di avere l'opportunità di parlare con Lorenzo Amoruso, che ci ha concesso questa intervista esclusiva, raccontandoci la sua esperienza e la sua visione di un calcio che non smette mai di emozionare.

Rangers-Celtic: I racconti di Amoruso
—Lorenzo, nel 1997 lasciasti la Fiorentina per i Rangers per circa 5 milioni di sterline: cosa ti spinse davvero ad accettare quella sfida in Scozia, in un calcio così diverso da quello italiano, e ti aspettavi di diventare una figura così iconica per i tifosi dei Rangers?
"All’epoca, nel 1997, non era affatto comune per un calciatore italiano andare a giocare all’estero. Anzi, eravamo davvero in pochi: Pasquale Bruno, Benny Carbone, Paolo Di Canio, Enrico Annoni, veramente pochi. Però sì, ci fu una motivazione importante alla base della mia scelta. Intanto, la Fiorentina stava attraversando grosse difficoltà economiche, e quindi il club decise di fare questo passaggio, anche perché all’epoca venivano offerte cifre davvero alte per un difensore. Cifre che, per i tempi, erano quasi impensabili. Partimmo per la Scozia con l’idea di parlarne, ma non c’era solo la Scozia in ballo: c’erano anche due o tre squadre inglesi interessate, tra cui il Leeds. Poi, alla fine, spuntò anche il Manchester United".
"Quello che mi convinse a scegliere la Scozia, però, al di là dell’aspetto economico, fu soprattutto l’ambiente straordinario che trovai lì. C’era David Murray e Walter Smith, che purtroppo oggi non c’è più, e davvero si respirava un clima familiare, un contesto eccezionale. Va anche detto che, all’epoca, non esisteva ancora la Champions League come la conosciamo oggi, ma c’era la Coppa dei Campioni, riservata esclusivamente a chi vinceva il campionato. E, con tutto il rispetto per la Fiorentina, vincere lo scudetto non era facile contro il Milan di Berlusconi, la Juventus, o l’Inter di Moratti. Nonostante in quell’anno a Firenze facemmo una stagione straordinaria, arrivando terzi, quello era probabilmente il massimo a cui potevamo ambire".
"Lasciare un campionato come quello italiano, che in quel momento era il più forte al mondo, significava andare in un contesto più piccolo, sportivamente parlando. Ma sinceramente, non mi sarei mai aspettato di diventare una figura così iconica. È chiaro che lì i difensori venivano apprezzati di più, anche perché avevano un modo di giocare e un atteggiamento diverso rispetto a quelli italiani. Da questo punto di vista sono molto contento, perché quando ancora oggi vieni ricordato anche per i derby Rangers-Celtic, nominato, messo nelle bacheche o citato negli articoli, significa che un pezzo di storia l’hai scritto davvero. Ed è una cosa che conta molto".
Hai esordito in un Rangers-Celtic entrando dopo appena 19 minuti per un infortunio: ricordi cosa hai provato in quel momento? Sei riuscito a renderti conto dell’atmosfera unica oppure sei entrato in modalità battaglia senza pensarci troppo?
"Il mio esordio in Rangers-Celtic è stato un po’ particolare: entrai dopo diciannove minuti. In realtà, non avrei nemmeno dovuto essere presente a quella partita, perché rientravo da un infortunio molto lungo. Durante la settimana, però, l’allenatore Walter Smith mi chiese di andare in ritiro con la squadra. Poi, un paio di giorni prima della partita, mi disse: "Guarda, sto pensando di portarti in panchina. Io gli risposi: "Mister, sì, sto bene, ma non gioco una partita da una vita, quindi non so quanto possa essere pronto". Lui mi rassicurò dicendomi: "Ma sì, devi solo stare in panchina, non è un problema".
"E invece, dopo diciannove minuti, sono dovuto entrare in campo per l’infortunio di un mio compagno. È stato un esordio pazzesco, anche perché lo stadio era diviso a metà: cinquanta percento tifosi dei Rangers e cinquanta percento dei Celtic. Era la prima volta che vivevo un Old Firm da dentro il campo, perché fino a quel momento li avevo sempre visti dalle tribune, da spettatore. Durante la partita, tra l’altro, rischiai anche di segnare su calcio di punizione, ma il portiere del Celtic fece una gran parata. Lì fu adrenalina pura. Vedere e sentire sessantamila, o quanti fossero, tifosi urlare in quel modo è stato qualcosa di spettacolare. Un’emozione unica. Quel Rangers-Celtic è davvero qualcosa di speciale, difficile da descrivere a parole".

Amoruso: "Vi racconto come sono diventato capitano"
—Nel 1999 diventasti il primo capitano cattolico della storia dei Rangers, un passaggio epocale per un club legato a una forte tradizione protestante. Ricordi l’esatto momento in cui ti venne comunicata la nomina? Cosa hai pensato, come è avvenuta la scelta e che tipo di reazione hai percepito dentro e fuori dallo spogliatoio?
"Ma sì, quando diventai capitano fu facile da ricordare e da interpretare quel ruolo. Sai, io bene o male mi sono sempre considerato un capitano. Fin da ragazzino lo ero, ho sempre cercato di fare, forse anche troppo, a volte, da punto di riferimento nello spogliatoio. Cercavo di tenere il gruppo unito, di mettere sempre la squadra davanti a tutto. Anche a scuola, per dire, ero il capoclasse. Queste caratteristiche da leader, se vogliamo chiamarle così, le ho sempre avute"
"Eravamo in ritiro, ed era appena arrivato il nuovo allenatore Advocaat. Facemmo tutta la preparazione e io, come sempre, mi comportai negli allenamenti, nelle partite e nelle amichevoli come uno che cercava di aiutare tutti. In particolare nel mio reparto, ma anche nei confronti dei centrocampisti, che dovevano darci una mano in copertura. Poi, all’esordio in Coppa, nella prima partita ufficiale, mi chiamò da parte e mi disse che avrebbe voluto darmi la fascia da capitano. E poi lo annunciò davanti a tutti, durante il pranzo prima della partita. Fu una cosa bella, inaspettata.
"Anche perché c’erano giocatori che erano già lì da tempo. C’era anche un altro nuovo arrivato, Arthur Numan, che era stato suo capitano nella squadra precedente, ovvero il Psv Eindhoven. Quindi fu davvero una scelta importante. All’inizio, è chiaro, non tutti erano d’accordo. La stampa, pur senza dirlo apertamente, lasciava intendere che non approvava molto. Ero italiano, cattolico, non proprio il profilo ideale per loro. Inoltre, nella nostra squadra c’era anche il capitano della nazionale scozzese, Colin Hendry, quindi si capisce che non fu semplice per tutti accettarlo. Però, grazie a Dio, i risultati sul campo mi diedero ragione. Alla fine, l’unica cosa che potevo fare era rispondere con le prestazioni. E mi sono guadagnato i gradi così, come ho sempre fatto: lavorando. Perché io credo davvero che, nella vita, se lavori duro, prima o poi vieni ripagato".
Nel 2002 fosti nominato Giocatore dell’Anno della Scottish Premier League: chi erano in quegli anni i calciatori più forti e temuti del campionato, quelli contro cui sentivi di dover dare davvero il massimo?
"In quegli anni in Scozia c’erano davvero tanti giocatori forti. Sia noi, i Rangers, sia il Celtic avevamo in rosa nomi importanti. Noi, ad esempio, avevamo gente come i fratelli De Boer, Jorg Albertz, Claudio Caniggia, Giovanni van Bronckhorst, Barry Ferguson, Tugay, anche se ha giocato poco con noi, una squadra molto forte. Anche Claudio Reyna ha giocato con noi. E loro, dall’altra parte, avevano Hartson, Sutton, Larsson, insomma, davanti erano pericolosissimi. Erano sempre dei Rangers-Celtic spettacolari. Avevano anche altri giocatori importanti, eh, adesso non mi ricordo tutti i nomi, ma c’era gente come Thompson, che poi ha fatto molto bene anche in Inghilterra. Era un’annata davvero di altissimo livello, per entrambe le squadre".
"Per me è stato bellissimo ricevere il premio come miglior giocatore di Scozia. Lì, a differenza che in Italia o in altre nazioni, quel titolo ti viene assegnato dai tuoi colleghi, dagli stessi calciatori che ti affrontano in campo. Quindi è ancora più gratificante, perché loro sanno quanto sia difficile giocarti contro. Fu davvero un anno incredibile per me. Feci delle prestazioni altissime, condite anche da qualche gol, certo, ma al di là delle reti, furono proprio le performance in generale a essere di altissimo livello. Probabilmente fu l’anno migliore della mia carriera, sia a livello nazionale che internazionale: partite bellissime, emozioni forti, un’annata che non dimenticherò mai".

Amoruso: "Arteta era già un allenatore in campo"
—Quali sono i tuoi ricordi più intensi degli Old Firm Rangers-Celtic disputati? Il tuo preferito?
"I derby Rangers-Celtic sono sempre partite a sé. Non puoi mai paragonarne uno con l’altro, ognuno ha la sua storia. Forse quello più particolare è stato quando abbiamo vinto 3-0 in casa loro. Non venivamo da un gran periodo, è vero: eravamo primi in classifica, sì, ma non stavamo giocando benissimo. Loro, se avessero vinto quella partita, si sarebbero avvicinati molto a noi in classifica. Invece facemmo una gara eccezionale: 3-0 lì da loro, prestazione incredibile, una grande prova di forza".
"Un altro derby molto importante fu in Coppa, con Alex McLeish allenatore. Anche lì venivamo da un brutto periodo: avevamo perso, se non sbaglio, due o tre partite contro di loro, e di certo non vincevamo un Rangers-Celtic da un po'. Era un quarto di finale, una gara davvero tosta. Giocammo bene, difensivamente fu dura, ma tenemmo botta. Ricordo un gol salvato praticamente sulla linea e poi un gol clamoroso di Bert Konterman, un tiro dai 25-30 metri sotto l’incrocio. Quella fu la partita del riscatto. Quell’anno loro venivano da un "quasi" triplete: vinsero il campionato, ma noi riuscimmo a portargli via entrambe le coppe. Fu un bel finale di stagione per noi, perché dimostrammo carattere e orgoglio proprio nei momenti in cui contava di più".
Tra tutti i compagni con cui hai giocato ai Rangers, chi consideri il più forte sotto il profilo tecnico?
"Ai Rangers, in quegli anni, sono passati davvero tantissimi giocatori forti. Quando sono arrivato io, c'erano già campioni come Brian Laudrup e Paul Gascoigne, Jonas Thern. Poi c'erano Jorg Albertz, una vera potenza, e tanti altri. Con il passare degli anni è arrivata una nuova generazione: Barry Ferguson, Claudio Reyna, Tugay, Giovanni van Bronckhorst, Arthur Numan, Michael Mols, Stefan Klos in porta, Claudio Caniggia, potrei andare avanti a lungo. Anche Frank de Boer è arrivato dopo, io avevo già giocato con il gemello Ronald. Ti dico la verità: citarne solo uno sarebbe un torto verso gli altri. Ho avuto la fortuna di giocare con calciatori davvero eccezionali, e farlo ti fa crescere sotto ogni aspetto, sia umano che professionale."
Hai avuto l'opportunità di giocare con Giovanni Van Bronckhorst e Mikel Arteta ai Rangers. Viste le loro qualità da giocatori, ti aspettavi che entrambi diventassero allenatori di successo?
"Guarda, sì, ho giocato con Giovanni, con Mikel, con Barry. Di tutti, ovviamente, Arteta è quello che sta avendo il maggior successo. Ferguson è ancora agli inizi, van Bronckhorst ha sfiorato qualcosa di importante ma adesso è un po’ sparito dai riflettori. Di Mikel posso dirti che già quando giocava si vedeva quanto fosse bravo tatticamente. Aveva una lettura del gioco davvero notevole. Credo però che la sua vera evoluzione sia arrivata dopo, quando ha avuto modo di lavorare con altri allenatori, in altre squadre. Essere il secondo di Guardiola, ad esempio, gli ha dato tantissimo. Quel tipo di esperienza ti forma".
"Ovviamente la crescita da calciatore ad allenatore dipende anche da quanto riesci ad assorbire, a 'rubare' dai grandi, e quanto invece metti di tuo. Ma nel suo caso, Arteta era già una persona intelligente in campo, e oggi quel modo di stare e pensare il calcio lo ha trasferito perfettamente nel suo ruolo di allenatore."
Avendo giocato insieme a Barry Ferguson ai Rangers, come descriveresti la sua evoluzione da compagno di squadra a allenatore? E cosa pensi del suo impatto come tecnico in questo periodo difficile per il club?
"Barry, come giocatore, non si discute. La sua storia parla da sola, non ha bisogno di presentazioni. Come allenatore, invece, credo sia ancora in una fase di crescita. Sta conoscendo meglio questo nuovo ruolo, ma è chiaro che ha già avuto un impatto importante. Va detto anche che quest’anno si è ritrovato a gestire una squadra non costruita da lui. È arrivato a stagione in corso, quindi ha dovuto adattarsi ai giocatori a disposizione, capirne le caratteristiche e lavorare con quello che c’era. Se verrà confermato, avrà la possibilità di costruire davvero qualcosa di suo. Conoscendo i Rangers, e avendoci giocato per tanti anni, Ferguson sa benissimo cosa rappresenta quella maglia e so che farà bene anche in questo Rangers-Celtic. Se resterà, dovrà puntare su giocatori disposti al sacrificio, che mettano la squadra, il club e i tifosi davanti a tutto. Perché ai Rangers si vince solo così".

Rangers-Celtic: Tra presente e futuro
—Con il Celtic che ha dominato la Scottish Premiership anche in questa stagione, che pensiero hai sul gap attuale tra i due club? Come vedresti i Rangers colmare questa distanza, magari sulla base di ciò che hai vissuto nei tuoi anni a Glasgow?
"Il Celtic, purtroppo, da diversi anni domina in Scozia. L’unico a interrompere quella striscia è stato Steven Gerrard, che è riuscito a strappargli uno scudetto. Il problema principale, secondo me, è che i Rangers hanno investito male. Non voglio giudicare il lavoro dei direttori sportivi, non è il mio compito, ma è evidente che alcuni giocatori visti in maglia Rangers non erano adatti a indossarla.Quella maglia è pesante, ha una storia importante. E certe scelte, anche a livello di allenatori, non le ho condivise. Per ridurre il gap col Celtic, bisogna riportare nel club persone che conoscono a fondo lo spirito dei Rangers, gente che ci ha giocato, che sa cosa vuol dire scendere in campo a Ibrox, anche in partite come Rangers-Celtic. Non è una questione di nazionalità, ci mancherebbe altro: ho massimo rispetto per allenatori e giocatori stranieri. Ma serve capire il carattere giusto. Perché solo chi ha vissuto davvero quel club può rendersi conto della pressione, della responsabilità, e della forza che rappresenta giocare per i Rangers".
Con il Celtic già campione e la possibilità di un guard of honour, una tradizione che solitamente segnala il rispetto tra le squadre, pensi che la rivalità storica tra Rangers-Celtic impedirebbe ai Rangers di onorare questa consuetudine, o c'è ancora spazio per il rispetto reciproco in un momento così carico di emozioni?
"Il rispetto reciproco c'è sempre, non potrebbe essere diversamente. È chiaro che ognuno vuole battere l’altro, ed è una cosa logica e naturale. Non so se ci sarà mai una rivalità come quella che c'era in passato, ma di certo il rispetto rimarrà sempre. Per quanto riguarda l'onore, in questo Rangers-Celtic, penso che sarebbe meglio evitarlo, soprattutto per i tifosi. Ma alla fine, saranno le decisioni della Lega a definire cosa accadrà. Nel calcio, ovviamente, nel privato ci si arrabbia, si ride, si scherza, ma questo fa parte del gioco. I grandi derby di tutto il mondo sono sempre segnati da queste diatribe. È normale, come tra Roma e Lazio, Inter e Milan, Boca Juniors e River Plate, tra Real Madrid e Atletico Madrid. Certo, c’è sempre il massimo rispetto, ma se posso schiacciarti calcisticamente parlando, lo farò".
Cyriel Dessers e Nedim Bajrami, entrambi con esperienze significative in Italia, sono ora protagonisti ai Rangers. Come descriveresti l’adattamento di entrambi al calcio scozzese e quale impatto pensi abbiano avuto nel rafforzare la squadra in questa stagione? Li stai seguendo?
"Dessers e Bajrami stanno facendo bene, tutto sommato. Dessers lo scorso anno ha avuto qualche problema all'inizio, ma poi si è inserito meglio. Ambientarsi nel calcio scozzese non è affatto semplice, per tante ragioni: il clima, il ritmo di gioco, ma soprattutto la pressione. In Scozia, arrivare secondi è quasi vissuto come un fallimento, perché giochi per club come i Rangers o il Celtic, che lottano sempre per lo scudetto. L'impatto di alcuni giocatori è stato discreto, anche se è chiaro che da certi elementi ci si aspetta sempre di più, soprattutto se dimostrano attaccamento alla maglia. Io li seguo quando posso, anche se lavorando nei weekend non è facile. Purtroppo in Italia non ci sono molti canali che trasmettono il calcio scozzese, quindi bisogna arrangiarsi sul web, a volte si vede bene, a volte è complicato. Comunque tengo d’occhio i risultati, le performance. So che non tutto è andato come sperato, tant’è che hanno cambiato allenatore e ora ci sono anche tre miei ex compagni nello staff, tra cui Allan McGregor. Vediamo cosa succederà l’anno prossimo. Per ora, la situazione resta abbastanza complessa".
Hamza Igamane sta facendo parlare molto di sé, tanto che alcuni lo paragonano a Mbappé per le sue doti fisiche e tecniche. Tu lo conosci personalmente? Cosa ne pensi di questo giovane talento e del suo potenziale? Può essere ancora decisivo anche in questo Rangers-Celtic?
"Igamane sta facendo bene, per carità, ma sinceramente paragonarlo a Mbappé o ad altri top player è davvero prematuro. Bisogna andarci molto, molto piano. È un giocatore che sicuramente ha margini di crescita, una grande evoluzione è possibile, ma tutto dipenderà da lui. Questi paragoni, oltre a essere inutili, rischiano solo di mettergli addosso una pressione esagerata. Per ora non ha fatto nulla di straordinario, quindi credo sia giusto lasciarlo lavorare con tranquillità, così come tutta la squadra. Dall'anno prossimo, quando si vedrà con chiarezza che direzione prenderanno lui e il gruppo, allora sì, si potrà iniziare a dare dei giudizi più completi. Ma adesso sono troppo parziali, e secondo me, non servono a nulla".

Amoruso: "Vi racconto il mio rapporto con Glasgow e la Scozia"
—Vivere a Glasgow presumo sia un'esperienza unica, soprattutto per chi gioca in un club come i Rangers. Come descriveresti la vita quotidiana nella città, sia dentro che fuori dal campo? E in che modo la rivalità calcistica influenzava il tuo rapporto con la città e con la gente?
"Il rapporto coi tifosi in Scozia è eccezionale. A differenza dell’Italia, lì c’è un enorme rispetto per i calciatori. La tifoseria è caldissima, ma se riesci a entrare nel loro cuore, diventi davvero un idolo. Ricordo quando cercavo casa: ho visitato decine di abitazioni con moquette, carta da parati, tazze, perfino la carta igienica, tutto con il logo dei Rangers. Una roba impressionante. Vivere in quella città da giocatore significa sentirsi parte di qualcosa di unico. Certo, devi anche saper mantenere le distanze, soprattutto rispetto all’altra metà della città. Gli sfottò ci sono, a volte pure gli insulti, specie di sera. Capita di incontrare il classico demente che ti provoca: lì serve intelligenza, devi saper andar via, evitare di reagire. A me è capitato più volte di essere chiamato ‘traditore’, semplicemente perché giocavo per una squadra protestante. Ma fa parte del gioco, e chi sceglie di vestire la maglia dei Rangers deve avere anche la forza mentale per reggere questo tipo di pressione".
Oggi qual è il tuo rapporto con i tifosi dei Rangers e con la Scozia? Ti seguono ancora, ti scrivono, ti cercano? Ti parlano di Rangers-Celtic?
"Il mio rapporto con i tifosi dei Rangers non è mai cambiato, anzi, è sempre stato eccezionale. Continuano a scrivermi, a chiedermi cosa penso dei risultati, delle sconfitte. A volte mi dicono: 'Perché non vieni ad allenare tu la fase difensiva?' Oppure scherzano con un 'Quando torni a giocare?' È un rapporto bellissimo, sincero. E credo che quando lasci un segno così importante in un club straniero, qualcosa resta per sempre. È bellissimo sentirsi ancora menzionato, ancora parte di quel mondo. Ogni volta che torno all’Ibrox e vedo il mio nome nella Hall of Fame, quella bacheca gigantesca, stupenda, ecco, lì ti rendi conto davvero di cosa sei riuscito a costruire. È un’emozione unica, difficile da spiegare a parole".
Sul tuo profilo Instagram alterni momenti sportivi a riflessioni personali molto forti. Quanto è importante per te raccontarti in modo autentico anche sui social, senza filtri?
"Sui miei social cerco di parlare non solo di sport, ma anche di vita. Di quella vera. Mostrarsi ogni tanto senza filtri secondo me è importante, perché oggi molte persone hanno una visione distorta di ciò che vedono online. Mi piace condividere momenti semplici: quando sono sporco di terra perché sto facendo giardinaggio, quando curo le mie galline o quando cucino. Sono passioni, sono parti vere di me. Penso sia giusto far capire che siamo esseri umani, non supereroi. Abbiamo passioni, difficoltà, difetti. I social non raccontano tutta la realtà, lo so, ma condividere qualcosa di più personale non mi dispiace. Anzi, penso sia un modo onesto per restare connessi con chi mi segue".
Ti vediamo spesso sorridente, autoironico, diretto. Quanto è cambiato Lorenzo Amoruso rispetto ai tempi in cui guidavi la difesa nei derby Rangers-Celtic davanti a 50.000 persone?
"Io sono sempre stato autoironico, ma quando indossi una maglia importante o guidi una squadra, devi sapere che stai rappresentando qualcosa di più grande. Essere capitano non significa solo indossare una fascia: te lo conquisti con i comportamenti, con l’esempio, dentro e fuori dal campo. Sei capitano perché gli altri ti riconoscono quel ruolo. Io non mi sono mai discostato dai miei valori. Ho avuto un’educazione eccezionale dai miei genitori, e una formazione calcistica preziosa grazie agli allenatori e alle esperienze vissute. Quello che ho imparato lo porto nella vita di ogni giorno. È ovvio che oggi, nella vita privata, ci sia spazio per la leggerezza, le battute, lo scherzo. Ma il rispetto, per la vita e per gli altri, resta sempre al centro. È un valore che non va mai sottovalutato".
Guardando al futuro: quali sono le tue ambizioni personali e professionali? C’è un sogno che hai ancora nel cassetto, fuori o dentro il calcio?
"Guardo al futuro con la stessa ambizione che ho sempre avuto. I sogni non finiscono mai, magari cambiano con il tempo, ma restano lì, nel cassetto, pronti a essere inseguiti. Sognare non è vietato, anzi: è proprio il sogno che dà slancio alla vita. Non credo che superati i cinquant’anni si debba pensare di essere nella fase discendente. No, io penso che finché sogni, vivi davvero. E poi i sogni non costano nulla, ma possono regalarti tutto. L’importante è vivere questa vita una volta sola, ma fino in fondo, senza rimpianti".
Ultimissima: chi è oggi Lorenzo Amoruso?
"Lorenzo Amoruso è una persona che è cresciuta molto nel corso degli anni. Se penso ai giorni a Bari, alle avventure e alle peripezie che ho vissuto, mi rendo conto di quanto il calcio e la vita, sia privata che professionale, mi abbiano fatto evolvere. L'esperienza, però, non finisce mai. Oggi sono più concentrato sulla mia vita privata, ma non escludo la parte professionale. Essere un'opinionista mi piace e, se dovesse arrivare un'opportunità di lavoro, la valuterei, ma per il calcio sul campo, che sia come allenatore o direttore sportivo, avendo entrambe le abilitazioni, non sottovaluterei mai l'occasione. Però, prima di tutto, mi godo la vita, penso alla mia compagna, al futuro insieme e a tutte le cose che mi fanno stare bene, come la mia famiglia, mia madre, i miei fratelli, mia sorella e tutte le persone che mi vogliono bene. Lorenzo Amoruso è una persona normale, ma che ha avuto un passato importante, arrivando a certi livelli partendo da Bari. Fare tanti sacrifici non è mai facile, e questo percorso mi ha insegnato tanto. Oggi, rivivere quei momenti, raccontarli, è sempre bello e, alla fine, molto gratificante".
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